venerdì 29 aprile 2016

Perché i bambini piangono. Non importa quante volte lo chiederete a google. Questa domanda non ha risposta.

Ho due nuove coinquilini. Hanno nove mesi, sono gemelli e mi stanno insegnando molte cose.

Ad esempio un bambino di nove mesi sa sempre se alle sue spalle c’è un cassetto da aprire. L'interesse per il cassetto è direttamente proporzionale al numero di coltelli affilati al suo interno.

Attualmente la migliore baby sitter è l’acqua. Dentro a un bicchiere, in vasca, nell’innaffiatoio, sul pavimento. Soprattutto sul pavimento.

Trovato un cavo elettrico o un laccio, la cosa più divertente del mondo sarà cercare di stringerselo con forza attorno al collo.

“Quel che ha in mano mio fratello è indubbiamente più bello di quello che ho in mano io. Lo voglio subito.”
“Quel che ha in mano mia sorella mi interessa soltanto se a lei non interessa quel che ho in mano io.”

Il gioco è bello quando dura per sempre, o almeno sei settemila ore.

Dormire di notte è sopravvalutato.

La forza di gravità, che straordinaria invenzione. Poche cose piacciono come vedere un oggetto che dalla mano finisce a terra. Mille volte di seguito.

I bambini piangono perché hanno fame, sete, sonno. Perché si annoiano o perché hanno il sole in faccia. Perché vogliono essere cambiati e perché non vogliono essere cambiati. Perché gli prude un dito, un piede o perché vogliono ascoltarsi gridare. Essi piangono, non sanno fare molte altre cose. La vostra vita sarà senz’altro migliore quando smetterete di cercare un rimedio per ogni pianto.

Le scarpe non servono a niente. Per non dire dei calzini.

I paraspigoli sono ottimi per grattarsi le gengive.

I bambini di nove mesi baciano a bocca aperta. Vi afferrano con manine grassocce per avere il vostro viso vicino al loro e poi vi cospargono di saliva nel tentativo di mangiarvi.

Quello che ho sulla spalla, lì sulla maglia nuova, è moccio.

lunedì 21 marzo 2016

Sogno di incontrarti nelle tasche

Indosso spesso la tua giacca nera. Mi calza perfetta. Segue il mio profilo, aderisce, non passano né aria né acqua e ha un cappuccio ampio che arriva fin davanti agli occhi. Mi ci infilo dentro, tiro giù le maniche fino ai pollici e fingo di essere te. Abbiamo lo stesso fisico, la stessa altezza, gli stessi nei. Mi chiudo lì dentro, nascondo il viso e chi mi incrocia non distingue i lineamenti, non vede da che parte sto guardando, un po’ come quando si indossano gli occhiali da sole, con la differenza che il cappuccio tiene al coperto anche la fronte, le orecchie, la nuca e rende vigili ma in qualche modo invisibili. Ti piaceva sentirti così, esposto ma al sicuro. Piace anche a me. Ma la cosa che più mi piace, di questa giacca, sono le tasche. Sono moltissime e so che l’hai scelta anche per questa ragione, per la sua capacità di offrire spicchi d’ombra in cui nascondere e nasconderti. È una giacca piena di segreti, con taschine minuscole e piccole cerniere che si aprono negli angoli. Non credo di averle ancora scoperte tutte, tasche nelle tasche chiuse dentro altre tasche. Sogno spesso di scoprire, insieme alla prossima, un fazzoletto o un bottone colorato, il biglietto del treno di un viaggio di cui non mi avevi parlato, qualche moneta straniera, una chiave, un autografo, la foto spiegazzata di un paesaggio. Sogno di incontrarti nelle tasche. Sogno di sorridere piano e annuire mentre mi raccontano, di te, qualcosa che non so.