lunedì 8 agosto 2011

L'errore. L'altrove.


Mi è successa questa cosa. Una cosa terribile, gravissima, in grado di mettere in discussione le mie certezze fino all’ultima. Uno di quegli episodi ancor più spaventosi perché nascondono la loro tragicità nell’apparente ordine del quotidiano.

Ho sbagliato treno.

Una vita da pendolare e non mi era mai successo (se si esclude quella volta, negli anni Novanta, in cui andavo al liceo ma non scesi in tempo alla mia stazione e arrivai a scuola due ore dopo facendo autostop sulla statale, ma quella non conta).

Io prendo il treno per lavoro ogni giorno alla stessa ora, vale a dire all’alba delle 7.15, e il mio regionale pidocchioso si trova ogni giorno sullo stesso binario. Salvo oggi. Sul mio binario, e sottolineo il mio, perché io sviluppo una qualche forma di possesso su fatti, oggetti ed eventi del mio quotidiano, c’era un treno per altrove. Ma non mi sono accorta della modifica. Anzi, ancora peggio: me ne sono accorta entrando in stazione e guardando distrattamente il tabellone con gli orari: “Il mio treno è due binari più in là stamattina”. La cosa veramente incresciosa è che io ho scordato, rimosso, dimenticato questa preziosa informazione nel tempo esatto che ho impiegato ad attraversare l’atrio. Quindi sono andata ad accomodarmi al mio posto abituale, sul mio solito vagone. Ho aperto il libro attualmente in corso e ho chiuso gli occhi nell’attimo stesso in cui il convoglio ha iniziato il suo pigro movimento lungo i binari.

Li ho riaperti poco dopo, mentre il treno si fermava. Nella sequenza temporale ormai acquisita delle soste, quella frenata non era prevista. Ho guardato fuori dal finestrino e ho pensato che mi stava capitando qualcosa di surreale, che stavo ancora dormendo e che ero prigioniera di una qualche specie di sogno. Al di là del vetro c’era l’altrove. Ed era identico a questo:

Le Officine Grandi Riparazioni esistono ancora, sono identiche a quelle in fotografia e si trovano appena fuori dalla stazione di Torino Porta Nuova. Immagino si chiamino diversamente, anzi, il tizio che mi ha trovata sul treno mi ha detto semplicemente: “che ci fa lei in officina?”. Già, che ci faccio io in officina? Come ho fatto a salire con incosciente tranquillità su un treno perfettamente vuoto, deserto e silenzioso? Realizzo in quel momento l’errore. L’istantanea registrata dal mio cervello poco prima: “Il mio treno è due binari più in là stamattina”.

“Lei deve scendere”
“Suppongo di sì”
“Ma lei non può scendere”
“Prego?”
“Faccia attenzione”
Sono in piedi sulla soglia. Là fuori ci sono file parallele di treni immobili, sottoposti a manutenzioni misteriose. Sembra notte. Operai affaccendati passano senza guardarmi, nessuno sembra far caso alla mia presenza. Nella penombra a decine di metri di altezza si muovono informi colossi in acciaio.

Questo non è reale.

“Devo andarmene”
“Sì, deve andarsene”
“E come faccio?”
“Dove deve andare?”
“Alla stazione. Devo seguire i binari?”
Lo so che è irrazionale ma mi sembra la via più facile: cammino a ritroso lungo la strada appena percorsa.
“Non può tornare indietro lungo i binari. È pericoloso”
“Ah”
“Cammini parallela a questi due treni fino a che non trova una passerella sulla sinistra”.
Preferisco non spiegare al tizio che ho problemi concreti a distinguere la destra dalla sinistra e chiudo a pugno la mano con cui non scrivo, per ricordarmi la direzione.
“Poi svolti e prosegua dritto. C’è una stradina appena fuori dall’edificio”
Questo non è un edificio. Questa è l’anticamera dell’oltretomba. Ma non mi sembra il caso di dirlo ad alta voce.
“E poi?”
“Vada sempre dritto. Sulla destra alla fine troverà un cancello”. La destra, oddio. Prima la sinistra e poi la destra. Ce la posso fare.
“Se è chiuso cerchi un portoncino più piccolo, lì accanto. Se è chiuso anche quello deve trovare il pulsante dell’apertura automatica, che però è un po’ nascosto, dietro un muretto. In basso a sinistra e …”
“Ok ok. Ho capito”
“Sì?”
“Sì sì, seguo la stradina”
“Prima la passerella sulla sinistra”
“Sì, certo”
“Stia attenta”

Cammino. Incrocio creature operose e indifferenti. Svolto. Cammino. Cancello. Aperto.

Esco. Fuori è Torino ed è giorno.

venerdì 5 agosto 2011

Non disseta ma confonde

Lo spazio della solitudine regala momenti di inaspettato godimento.

Sono tornata dal lavoro tardi, di nuovo. Mentre pedalo verso casa mi ricordo che non c’è nessuno, che arriverò e prenderò possesso degli spazi domestici con un’intimità diversa. Una confidenza inusuale. Lascio la bici in cantina e mi prendo una bottiglia di vino. Non è abbastanza fresco. Lo realizzo mentre salgo verso l’appartamento, un gradino dopo l’altro. Entro e lascio le scarpe nell’ingresso, di traverso contro la porta. Esco dal vestito con un colpo di zip e infilo la bottiglia di vino in freezer. Vado in bagno, dove tolgo quel che rimane e guardo la doccia con desiderio. Mi godo fino all’ultima goccia battente. Mi curo la pelle, i capelli. Idrato, massaggio, rilasso.

Non ho voglia di vestirmi. Né di cucinare. Mi tengo i capelli bagnati, i piedi nudi, addosso l’essenziale. Metto una piastra sulla fiamma al massimo e quando è rovente ci butto su una tagliata. Mentre la carne si scotta, pochi minuti per lato, tiro fuori dal freezer la bottiglia di vino, finalmente freddo, e la stappo. Il primo bicchiere va giù a stomaco vuoto. Non disseta ma confonde.

Ho sulle labbra quel piacevole stordimento che conoscete.