martedì 26 aprile 2011

Io penso negativo

Uno degli aspetti più trascurati della sofferenza, ammesso che io possa permettermi di accostarmi al nobile concetto di dolore, è la pericolosa tendenza delle afflizioni ad autoalimentarsi. È una vocazione che fa malissimo. Fisicamente intendo. Si chiama disfattismo. Ci avete fatto caso? È spesso incredibilmente più facile concepire e sviluppare pensieri negativi che positivi. Ci si affeziona quasi all’attesa inevitabile di qualche sventura. I pensieri negativi sono in grado di prendere il sopravvento senza che nemmeno ci sia dato il tempo di indagare a fondo le alternative. Diventa un automatismo della mente e difficilmente capita il contrario. O comunque molto di rado. Non sono i desideri e le aspettative che si fanno strada nei nostri meccanismi di reazione, né le speranze più costruttive: è molto più facile invece che ci si attardi in compagnia dei presagi più luttuosi. Non si tratta di scaramanzia, perché a differenza di questa ha una tenacia più tagliente. Non si tratta neanche di pessimismo, con il quale si possono aprire degli spiragli di confronto dialettico. E nemmeno del cinismo più audace, per la cui disciplina nutro ancora qualche rispettoso timore.
Il disfattismo è un’altra cosa. È la sfiducia amplificata dalla coscienza. È la negatività che si compiace di se stessa. Perché il problema vero, con il disfattismo, è proprio questo, il compiacimento, l’autocommiserazione, la maglia sottile e resistente della sfiducia che ama nutrirsi di se stessa.
Ci sono due categorie di disfattisti: quelli che soccombono perché incapaci di riconoscere il malfunzionamento del proprio metodo e quelli che soccombono anche se ne sono pienamente consapevoli. Sono i disfattisti lucidi. Sono i più pericolosi quelli che ne hanno contezza, perché la lucidità diventa un alibi. È il migliore dei pretesti per non fare sforzo alcuno nel motivarsi con positiva intraprendenza verso il quotidiano. E badate bene che l’autocompiacimento delle proprie miserie è una tentazione che investe tutti quanti, me inclusa. Ma nutro ancora l’allegra fiducia che sia possibile proporre a se stessi delle varianti.

mercoledì 20 aprile 2011

Arbiter elegantiae

Vorrei aprire una parentesi di stile. Parlerò di abbigliamento. Lo stile che mi interessa oggi è quello nascosto, quello cui accedono soltanto gli intimi: l’abbigliamento di casa. Sì, perché tra le mura domestiche avvengono le metamorfosi più interessanti. Io, ad esempio, che quando vado in giro sono una attenta, una di quelle che crede che l’abito faccia il monaco, appena chiudo la porta mi trasformo. Via dunque gonne corte e vestiti che valorizzano il culo, lasciati da parte anche gli stivali al ginocchio e gli accessori vintage. Dentro casa accadono cose inverosimili: felpe macchiate, pantaloni sventrati, maglie infeltrite, calzettoni e scaldamuscoli, babbucce improbabili, pinzette tra i capelli e tshirt del novantadue. Per non parlare dell’abbigliamento notturno. Diciamolo: quante donne dormono in guepiere, eh? Passata la fase del “ma certo che non ho freddo, dormo solo con un copricapezzoli di swarowski” cominciano a comparire vestagliette della nonna, pigiamoni fiorati, magliette della salute in flanella. Rosa. O a rombi. Questo se la donnina in questione vi ospita nel proprio talamo e ha a disposizione tutto il catalogo delle mostruosità domestiche. Ma se si trova per sbaglio nel vostro e non ha in borsetta la propria camicia da notte gialla a strisce accadrà quanto segue. Dopo l’amplesso fingerà disinvolta di non aver freddo e di voler dormire completamente nuda. Forse riuscirà anche a prendere sonno, sotto una tonnellata di coltri. Ma a un certo punto della notte allungherà un piedino gelido verso i vostri polpacci e, con un bisbiglio che tenti di nascondere il naso chiuso, chiederà se avete una tshirt da prestarle. Vi consiglio per decenza di evitare le magliette col Che e quelle che usate per il calcetto. Meglio se riuscite a recuperarne una colta, una di quelle con le citazioni poetiche. Leopardi ad esempio andrà benissimo.

domenica 10 aprile 2011

Ce la farà scontare

L’argomento preferito degli ultimi giorni è la temperatura. Ammettetelo, l’avete detto anche voi: che caldo! Non è normale questo caldo. Ce la farà scontare. Già la frase di per sé indica la presenza di un soggetto capriccioso e vendicativo che prima ci delizia con 30 gradi ventilati e godibili, del tutto fuori stagione, e ci invita a denudarci con due mesi di anticipo, incoraggiando cosce al vento e braccia scoperte. Salvo poi ributtarci nel giusto fresco di primavera, quello che ti fa uscire col trench e la sera hai freddo in bicicletta. Io vorrei scoprire, aiutatemi, chi è questa divinità volubile che si diverte a punirci con l’illusione dell’estate e, soprattutto, vorrei capire perché siamo tutti così persuasi che esista. Mi spiego. Non ce n’è uno che riesca a godersi questa luce turchese e questo sole carezzevole senza fermarsi un momento a pensare che nel giro di qualche giorno torneranno i 14 gradi variabili. Perché? Perché non siamo capaci di godere veramente di questo azzurro e non osiamo fare il cambio di stagione negli armadi? Ve lo dico io perché. Perché siamo abituati da duemilacinquecento anni a sentirci in colpa del nostro benessere, a viverlo con disagio, a chiederci se lo meritiamo. E se l’idiozia del senso di colpa non basta, o non vi appartiene, aggiungo un’altra considerazione, una cosa diversa. Si tratta di uno stato della mente più sottile e, per questo, ancora più difficile da estirpare. Quando siamo contenti, ma contenti davvero, pare che il senso di sazietà cui la contentezza ci induce ci renda superbi. La superbia conduce alla tracotanza. E la tracotanza accompagna dritti alla punizione divina. È quello sapete? Pare sia la superbia il peccato che ci fa dire “che clima meraviglioso, la sconteremo tra qualche giorno”. Non sono io a dirlo, lo dice Solone, nel VI secolo a.C., anche se a dirla tutta dubito che parlasse del meteo. Comunque a me l’hanno spiegato qualche giorno fa, mentre mi interrogavo dubbiosa sulle ragioni per le quali stiamo vivendo tutti con sospetto e disincanto questo sole che ci accarezza dietro al collo, e come interpretazione mi ha convinta.
Ora, facciamo uno sforzo di gruppo e liberiamocene. Facciamolo adesso, subito, e usciamo in strada nudi a ballare di gioia.