lunedì 30 agosto 2010

Una vita integrata



Ci sono cascata anch’io. Uso e abuso di integratori, sostanze naturali o quasi, che ingerisco più volte al giorno nell’illusione che mi mantengano in salute e ben conservata. Pare sia una prerogativa delle donne quella di servirsi di capsule, fialette e granuli che promettono benessere psicofisico prolungato. Io non faccio eccezione. Escluse le vitamine (per il momento assumo frutta e verdura a sufficienza, ma non si può mai dire), a periodi alterni, ho inghiottito praticamente di tutto: la bardana per la pelle, carciofo e tarassaco per depurare, i semi di pompelmo come antibiotico naturale, propoli ed echinacea per le difese immunitarie, fermenti lattici in tutti i formati e
litri di tè verde (che un integratore non è ma pare faccia bene). Come sanno gli esperti esistono erbette praticamente per ogni cosa, fiori bacche e frutti benefici, cortecce che son la panacea di tutti i mali. Come dice l’etichetta, comunque, “gli integratori non sostituiscono una dieta variata, devono essere impiegati nell’ambito di una dieta adeguata seguendo uno stile di vita sano con un buon livello di attività fisica”. Ma a me piace credere che buttar giù il magico opercolo fitoterapico già mi regali un pezzetto di salute imperitura.
C’è un integratore che prendo ultimamente a base di potassio e magnesio, un classico dei sali minerali (ma se trovi il tempo di mangiare una banana e una manciata di mandorle tostate è uguale), che ha su di me un effetto dopante: lo trovo euforizzante. Ok, solo per una mezz’ora, ma ho calcolato che se ne assumo sei litri al giorno il mio rendimento, professionale e non, subirà un’impennata di rilievo. Forse.
Naturalmente ne esistono per ogni patologia e per qualunque necessità. Posso confermare che non servono
a niente quelli che promettono di far crescere le tette e nutro dubbi decisivi anche su quelli per guarire dal mal d’amore.


venerdì 27 agosto 2010

Merenda

cos'è questo rumore? che stai facendo?

ti preparo dei pop corn

ma sei nudo

che problema c'è?

martedì 24 agosto 2010

Pizzicata


La pizzica è una danza per turisti. Lo è nella maggior parte del Salento e per la maggior parte dell’estate suppongo. Io sono inciampata per caso nella festa di paese di Cutrofiano, una manciata di abitanti, dove la turista ero io. E basta.
La pizzica è una danza per bambini. La piazzetta dove folleggiano un violino, un organetto, tamburelli e una sensuale voce di donna, brulica di infanti e adolescenti incontenibili.

La pizzica è una danza di coppia. Coppie di indigeni, alcuni dei quali a piedi nudi, si corteggiano al ritmo dei tamburi. È un gioco di cui riconosco facilmente le regole: lei fa la scema, provoca, occhiolina e ammicca ma, appena lui le si avvicina, incoraggiato dalla danza, lei si ritrae con sdegno. I passi tirano indietro il corpo di lei che sembra dire “mi sa che hai capito male”. L’occhio intanto si riga di malizia e suggerisce, impertinente, “no no, guarda che hai capito benissimo”. E da qui si procede. Praticamente la storia di tutte le storie. Come possono confermare le donne che hanno il coraggio di ammetterlo.

La pizzica è la danza per me. Non solo per l’impertinenza di cui sopra, suvvia, ma per l’irresistibile gioco di mani sui tamburelli, che si impadronisce dei piedi dei presenti e non permette loro di starsene a guardare. Oddio, a dirla tutta, se avessi avuto un minimo di decoroso amor proprio me ne sarei rimasta a guardare eccome, ma tanto laggiù, a 1200 km da casa, che avevo da perdere? La dignità vacanziera gode in genere di una certa rilassatezza dei costumi, è noto. Fatto sta che, pur mediamente sobria, passato l’attimo della spettatrice, ero nella cerchia dei danzanti. C’è da dire che dopo un minuto e mezzo ero già del tutto priva di fiato.
La pizzica non è una danza per turisti: immagino che il trucco usato dagli indigeni per mantenere intatte le loro funzioni vitali consista nel variare sapientemente il ritmo dei passi nonostante i tamburelli continuino imperterriti la loro marcia. Ma io, che sono solo una torinese in vacanza, che ne so? Ho continuato a volteggiare dimenandomi sconclusionata, irragionevolmente fiera di essermi liberata da ogni imbarazzo, senza praticamente fermarmi. Dopo cinque minuti volevo morire. Al sesto minuto ho invocato alcune divinità griche pregando silenziosamente per un malore improvviso del violinista, o quantomeno
un piccolo colpo apoplettico per la cantante, anche non grave. Dopo sette minuti l’orgoglio ha avuto il sopravvento: se resistono tutte queste ragazzette, maledette loro, giammai sarò io a lasciare la cerchia per prima. Alla fine del pezzo sono stramazzata in un angolo dal quale mi sono rialzata poco fa.
Sono quasi certa che i miei problemi di fiato siano dovuti essenzialmente a due fattori. Sarò didascalica ma seguitemi. Innanzi tutto la respirazione appresa nelle mie sessioni di yoga esige un dispendio di ossigeno inferiore: la pizzica ha proprietà sciamaniche praticamente identiche ma le energie ne risentono. In secondo luogo, come dicevo, la pizzica è una danza di coppia: il trucco per mantenere integro il fiato suppongo stia proprio nel gioco dei passi a due. Si sa: sedurre ed essere sedotti è una danza con delle pause precise e una donna che fa la scema ha poi tutto il tempo di riprendere fiato mentre è impegnata a far credere all’uomo di aver frainteso, di aver sopravvalutato gli scopi del suo ritmico ancheggiare. Ecco, io questa danza di coppia l’ho ballata da sola. Quindi senza pause. Perché sola? Forse non ho fatto la scema abbastanza.


In foto: Mich balla la pizzica. Pare che un’indigena abbia avvicinato l’autore dello scatto dicendo “Eh, si vede che non è pugliese. Ma se la cava”. Si vede che non è pugliese? Non capisco da cosa.

giovedì 5 agosto 2010

D'estate

D'estate, come i cinema, io chiudo.
Il pensiero mi vola via e si perde,
il segno si fa vacante,
l'aria è calda
la tavola piena di frutta.

V. MAGRELLI in
Ora serrata retinae (sezione Aequator lentis)

domenica 1 agosto 2010

Che peccato, l'invidia

Talvolta provo invidia. Non per la ricchezza, la fortuna o la bellezza altrui. No, io provo invidia per il talento, per le doti. Tanto per cominciare provo invidia per i tantissimi che scrivono meglio di me, per quegli abili trafficanti di perfette sintassi e meravigliosi concetti. Alle volte detesto alcuni poeti per questo, gli scrittori. Anche certi blogger, lo ammetto e loro lo sanno. Quelli che sviluppano l’intuizione migliore, o che prendono la mia idea e riescono a dirla meglio. Ecco, io li invidio.
In secondo luogo io invidio chi riesce a trovare forme di espressione diverse dalla parola. Invidio chi sa cantare, chi sa suonare, comporre, chi disegna, dipinge, chi sa prendere a morsi perfetti la realtà per mezzo della fotografia. Ecco, sui fotografi aprirei proprio un discorso a parte. Ne conosco una che guarda la realtà attraverso un obiettivo. Non credo di averla mai vista senza quell’obiettivo. Provo un costante moto di ammirata letizia nel guardarla rubare gli istanti del mondo con una sequenza di impercettibili clic. Ma il piacere di vederla concentrata e attenta sulle inquadrature dei volti, dei tetti e dei colli si trasforma ben presto in malcelato fastidio, ché io non so fare né saprò mai fare niente del genere. L’invidia è una forma rancorosa d’astio, una mescolanza di adorazione, desiderio e ostilità.
E io talvolta invidio. L’invidia, al contrario di certe forme di sfacciata ammirazione, non produce emulazione, né altre forme di costruttiva imitazione, né alcuna sorta di euforico apprendimento. Nemmeno la rivalità: perché l’invidioso non desidera essere meglio dell’invidiato. L’invidioso desidera che l’invidiato smetta di esistere. È una prospettiva sottilmente diversa.
Ho recentemente passato la notte con la fotografa di cui sopra. Fianco a fianco. In un letto a due piazze di un albergo isolato. Avrei potuto ucciderla. Potevo soffocarla nel sonno.
Ma non l’ho fatto. Ho sempre avuto qualche problema con l’occultamento dei cadaveri.