lunedì 30 novembre 2009

Rubrica: Ventricoli Epistolari/0


A grande richiesta (ben tre lettori) torna una rubrica a me molto cara: i Ventricoli Epistolari. Per chi non avesse mai seguito il mio vecchio blog, ormai pensionato da tempo, ripropongo qui qualche riga della presentazione originale.

Nasce oggi una nuova rubrica: troverà spazio sulle mie pagine di tanto di in tanto. Naturalmente, è una posta del cuore. Approfitterà impudicamente e sfacciatamente delle vostre lettere, dei messaggi che ricevo, che interrogano e mi interrogano. E le risposte (avviso in proposito i miei venticinque lettori) saranno pubbliche, in mondovisione. Una degenerazione dell’esibizionismo insomma, tanto mio quanto vostro ovviamente.
Ognuno di voi è invitato, qui sotto, a dare buoni consigli, se non può più dare cattivi esempi. E comunque, i cattivi esempi, sono eventualmente i benvenuti.
(Per quanto riguarda la vostra identità, la tutelerò come posso. Ma usatemi prudenza).

Questa fu la prima lettera, con relativa risposta:

Mich,
a occhio e croce domani prenderò un coltello da cucina, mi aprirò il torace, tirerò via il cuore e lo sostituirò con una pompetta corazzata in titanio.Dopo, mi scalotterò il cranio e rimuoverò amigdala, nuclei ipotalamici e altri centri responsabili delle emozioni. Se effettivamente succederà ti mando i resti sanguinolenti, ok?
Geck lo Squartatore

Caro Geck,
una volta che ho tentato di imbalsamare l’ipotalamo mi è venuto il fuoco di sant’antonio. Più un’altra serie di disturbi psicosomatici che non è il caso di dettagliare. Poi ci si impratichisce e, con l’aiuto dell’algebra e della geometria, si trasformano le emozioni in equazioni. Bastano un manuale, un paio di formule e passa tutto. Si sta divinamente. Il problema, quando si va a spasso convinti di essere inoppugnabili come un assioma, è che al primo numerino che disfa la formula ce ne andiamo beatamente in frantumi. Può darsi comunque che a te l’esperimento riesca, chissà. Aspetto impaziente i tuoi avanzi biliari e ciò che resta del tuo cuore.

I nomi vengono cambiati da me, a meno che non ne scegliate uno. Il tema, invece, lo proponete voi: cuori infranti, amori a pezzi, sentimenti puri e impuri, dolori, tremori, gioie violente, fedeli e infedeli, spasimanti molesti. Quel che vi pare. Naturalmente chi scrive qui sa che corre il rischio serio che la sua lettera venga fatta a pezzi, a scopo ludico, da me e dai lettori. Non facciamo psicologia, crediamo solo nel potere dissacratorio della parola.

L'indirizzo è questo: ascopoludico@gmail.com

martedì 24 novembre 2009

Ci siamo già visti?

Ho un problema: non riesco a ricordarmi delle persone. Pensavo fosse un disturbo della memoria fotografica, invece pare sia un disturbo della personalità.

Oddio, parlo come una disadattata.

Comunque, il concetto è questo: ricordo i volti con grande difficoltà, i nomi li rimuovo all’istante, forse non li ascolto nemmeno, e il contesto dell’incontro sbiadisce nei suoi contorni dopo un minuto. Il risultato è che sono in grado di presentarmi tre volte di fila alla stessa persona, con momenti di grande imbarazzo quando la persona in questione non solo mi saluta calorosamente chiamandomi per nome, ma ricorda anche precisi dettagli di nostre conversazioni che, per quanto mi riguarda, non sono mai avvenute.

Ora, i casi sono due: non sono attenta al prossimo mio perché ritengo che non abbia niente di interessante da dirmi, oppure non sono attenta al prossimo mio perché sono troppo impegnata io a trovare qualcosa di interessante da dire. In entrambi i casi non ci esco a testa alta, perché manifestare scarsa attenzione verso il proprio interlocutore, per qualunque motivo succeda, non è carino a prescindere. E non solo nella mia vita mondana: potrei infatti elencare alcune clamorose amnesie facciali anche nella vita professionale. Il che è molto grave quando parte del tuo lavoro è fatto di pubbliche relazioni.

Ma non c'è niente da fare. L'altra sera, per dire, mi ci sono impegnata: c'erano quattro persone nuove a cena e ho deciso che, anche a costo di prendere appunti, avrei dovuto ricordarmi i nomi e quantomeno una caratteristica ciascuno. Una qualunque: il colore dei capelli, della maglia, un tic, una fobia, la professione, qualcosa insomma. A cinque giorni da quella cena ricordo tre nomi su quattro, cosa che rappresenta un mezzo record, ma nemmeno un colore di occhi. Non so se qualcuno di loro porta gli occhiali né se hanno la barba. E i tre nomi che ricordo, naturalmente, non saprei abbinarli a un volto. Ricordo dettagli delle conversazioni, ma non ricordo affatto chi ha detto cosa.

Che devo fare? Mh? Scattare fotografie di nascosto e fare l'album a fine serata? Credo che dovremmo tutti riuscire a presentarci impressionando in qualche modo la memoria di chi ci stringe la mano. Con me fatelo. Dovesse capitarvi di conoscermi ricordatevene e ditemi qualcosa di sconcertante: piacere sono Nicola e mi piace dormire su un letto di chiodi; ciao, io sono Lucia e quella che stringi è una mano finta; ah, io sono Eugenio e martedì scorso mi hanno rapito gli alieni. Cose così insomma. Non so, magari funziona.

martedì 17 novembre 2009

Opzione vivavoce

Se pensate che il mio parlare delle parole senza in effetti pronunciarle mai stia nascondendo una voce orrenda, avete in parte ragione: superati i primi minuti durante i quali, perfettamente impostata, esaurisco le mie competenze di dizione e la capienza vocale del mio diaframma, mi capita di starnazzare. Ho una voce un po’ gallina insomma. Ma non la vivo con imbarazzo a meno che, ovviamente, non mi chiediate di cantare. Quello non lo farò mai. Mai più ad essere precisi. Una volta un ragazzo per il quale avevo perso la testa mi chiese di dimostrargli quanto fossi in effetti stonata. Stetti al gioco e gli cantai il ritornello di Medusa Cha Cha Cha, di Vinicio Capossela. La conoscete? Ecco, immaginate un fagiano che esala, stridulo, l’ultimo respiro e avrete la mia performance. Ho sempre avuto il sospetto che fu questo il motivo per cui decise di uscire dalla mia vita.

lunedì 16 novembre 2009

Se non ne parli ad alta voce non esiste


Quando cedi alla tentazione di dar voce ai pensieri è un casino. Dar voce in senso fisico intendo, oralmente, non conta la parola scritta. Dar voce dal vivo, con un interlocutore che interviene in tempo reale, che potrebbe dire la sua e portare la tua parola altrove, ripensandoci in tua assenza, citandola nelle conversazioni, in una diramazione inarrestabile di mi hanno detto che gli hanno detto che mich ha detto. Se facessero la stessa cosa con queste parole qui, belle composte e scritte, sarebbe molto diverso: sono certo interpretabili, d’accordo, ma sono immodificabili, se torni a leggerle fra un mese saranno formalmente uguali. Con la parolaparlata non funziona così e ci si espone con un controllo inferiore: non puoi rileggerti, non puoi riformulare, non puoi fermarti a metà per dire che no, non volevo dire quello che ho detto. Naturalmente trattasi, appunto, di una tentazione cui si finisce per cedere, perché scambiarsi dal vivo parole (che non è parlare con) è bello, è divertente, è impegnativo ma ripaga con generosità della fatica che costa saperlo inventare. Ci troviamo così, a volte senza averlo nemmeno preventivato, a parlare e dar forma fisica a concetti altrimenti esistenti soltanto dentro al nostro cervello o sulle pagine di un taccuino, più o meno virtuale. Il che significa che non esistono, perché prendono realmente forma nello scambio e nella condivisione. Non si tratta necessariamente di pensieri altamente filosofici o di capitale importanza teorica, anzi, a volte si tratta di banalità, di considerazioni semplici, di piccole cronache del quotidiano. Ma una volta che le hai dette ad alta voce iniziano improvvisamente a prendere corpo, ti stanno di fronte e le puoi guardare come estranei, come altro da te. Non ti appartengono più. Io sono molto gelosa delle mie parole, anzi: sono possessiva, che è diverso. Sono mie solo se le ho scritte: vengono lette e iniziano a vivere di vita propria, d’accordo, ma in realtà continuano in un certo senso a restarsene lì, ferme nella loro sintassi. Quando invece le ho parlate regalo loro da subito l’indipendenza. È un regalo che faccio volentieri, ma non spesso.

lunedì 9 novembre 2009

Davvero me lo stai chiedendo?

Ci sono domande che, in coppia, sarebbe meglio evitare. La questione è stata recentemente sollevata da una mia amica che ha chiesto a quello che credeva il suo fidanzato “che cosa siamo io e te?”. In tutta risposta, il genio del crimine, si è dileguato nel nulla dopo aver farfugliato qualcosa tipo "E' tempo che io vada". Ecco, il problema in fondo è questo: siamo proprio sicuri di voler sapere come stanno le cose? E quando siamo noi gli interrogati, metteremmo la mano sul fuoco che chi abbiamo di fronte voglia sapere null’altro che la verità? O sta, stiamo, piuttosto cercando conferme e rassicurazioni? Farò qualche esempio.

Una volta ho chiesto a un ragazzo con cui uscivo da poco: c’è qualcosa che non ti piace di me? Ovviamente la mia era una domanda tendenziosa e la risposta esatta era soltanto una: mi piace tutto di te, baby. Lui ci pensò un attimo e disse: i polpacci. Nonostante sia passato un lustro, ogni tanto il complesso dei polpacci mi torna.

E che dire di: quanti uomini (o donne) hai avuto prima di me? Un evergreen. Io non lo chiedo mai. E preferirei che non mi venisse chiesto. Detesto il balletto delle competizioni che la risposta potrebbe generare. Una tonnellata di insicurezze, anche negli individui più navigati. In fondo, che siano stati 5 o 75, se tra me e te adesso funziona tanto bene, che cosa ti cambia se ti dico un numero?

E per restare sull’intramontabile: mi hai mai tradito? Vi prego. Io non ci tengo a saperlo, assolutamente. Cosa volete che vi rispondano? Sì, no, forse, solo col pensiero, solo una volta ma giuro è stato solo sesso. Maddai. Siamo seri. È una domanda da fare soltanto per gioco. Io, per tenere viva la conversazione, rispondo sempre di sì.

E poi un altro classico: a cosa stai pensando? Maledizione, ma perché non ci facciamo un nodo alle corde vocali invece di uscircene periodicamente con questa fesseria? A parte il fatto che io, quando me lo chiedono, non rispondo quasi mai la verità, a meno che la verità non contempli qualcosa di più che lecito o di assolutamente pertinente al contesto (cosa rarissima). Come ci viene in mente di porre un quesito tanto idiota? Una volta l'ho chiesto a un tipo che mi piaceva da morire con il quale avevo appena fatto l’amore e da cui ovviamente mi aspettavo una carineria, lui mi rispose: non mi ricordo più il pin del bancomat.

E ne ho un’altra. Un’altra domanda da dementi: ti è piaciuto? Ecco che scatta la mania del voto. Perché? Non ci basta venir logorati da settecentomila paranoie? Ne vogliamo un’altra? E chi ci assicura che ci stiano rispondendo la verità? Fidiamoci della nostra sensibilità fisica e della nostra capacità di giudizio per favore, sempre che non siano state obnubilate dai sensi. E lasciamo perdere il questionario.

E all’elenco potremmo aggiungere: cosa preferisci di me? Ti è simpatica la mia migliore amica? Ti manco? Ti posso chiamare ogni volta che ti penso? Mi trovi ingrassata? E, per concludere, il mitologico: mi ami?

E voi? Ci sono domande che non avreste mai voluto fare o davanti alle quali avete spalancato gli occhi e detto: davvero me lo stai chiedendo?

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vuoi un pochino del mio raffreddore?

sì, grazie, ne prendo volentieri una fettina




lunedì 2 novembre 2009

Romanticheria


e poi non mi dici mai cosa ti piace di me

non è vero: ti dico in continuazione che mi piace il tuo culo