lunedì 26 ottobre 2009

Se fa male vuol dire che fa bene



Se fa male vuol dire che fa bene. Me lo diceva sempre mia nonna quando mi disinfettava le ferite vive con l'alcool puro. Era sempre così: io mi sbucciavo un ginocchio giocando in giardino e mi veniva da piangere non tanto per la sbucciatura in sé, ma perché temevo il momento in cui avrei dovuto presentarmi da lei per la medicazione di rito. Ogni tanto facevo finta di niente, continuavo a giocare e rientravo in casa a sangue ormai rappreso, con una crosta di fango e piastrine. Lei mi beccava subito, prendeva lui, il maledetto denaturato, e via: fiotti di liquido infiammabile per togliere la crosta di impurità e pulire a fondo la ferita ancora fresca. Per fortuna la ricerca scientifica, tra le sue mirabili scoperte mediche, ha incluso quella che ha portato alla diffusione dei disinfettanti che non bruciano. E fanno bene lo stesso. Capito? Non fanno male e, nonostante questo, fanno bene. L'ho presa alla lontana per parlare di questa cosa: è proprio necessario stare male, contorcersi dal dolore, soffrire e disperarsi per stare bene? Qualche volta sì, ma ho il ragionevole dubbio che, mentre mi arrotolo in una posizione di yoga dai conclamati benefici, se sento cric a livello delle rotule e poi zoppico, quei benefici li vedrò molto difficilmente. L'acido lattico, per dirne un'altra, se vi devasta per giorni dopo aver fatto palestra, immagino che non vi stia facendo bene affatto. Quando lo abbiamo inventato questo culto del dolore? Sospetto che il catechismo abbia avuto i suoi meriti, insieme a tanta bella educazione al senso di colpa: stai male, non importa per cosa, stringi i denti ché di certo te lo sei meritato. Una forma di espiazione insomma. Ecco, io me ne vorrei liberare. Sia dal concetto di espiazione che, quando possibile, dal concetto di dolore. Devo stare per forza male per tornare a stare bene? Ammetto che, a un certo livello, detta così faccia parte del ciclo naturale delle cose. Però. Accidenti. D'accordo. Devo stare male. Ma per quanto?

lunedì 19 ottobre 2009

La saggezza del mondo


Faccio yoga da tre anni. Il che significa che da circa tre anni mi arrotolo e riallungo periodicamente di fronte a contorsionisti che parlano per metà di posizioni, le poetiche asana, e per metà di respiri del mondo. Il tutto possibilmente con le caviglie accanto alle orecchie e senza mai perdere il sorriso. Mi piace. Mi piace la sensazione di essere un paio di centimetri più alta subito dopo, mi piace scoprire che rassoda il sedere, modella il ventre, snoda le gambe. Mi piace indagare i limiti delle mie giunture e sollecitare le articolazioni. Per non dire dell'indolenzimento del giorno dopo, quello che coinvolge muscoli insospettabili e ti fa dire con soddisfazione “oh yesss, se fa male vuol dire che funziona” (questa è una grandissima scemenza: ci farò su un pezzo un giorno, un trattatello sul perché se fa male fa male e non è affatto detto che faccia anche bene). Comunque, esistono molti tipi di yoga, ma io per semplicità ne distinguo due: quello in cui si prega e quello in cui si suda. Io preferisco il secondo: mi piace lo yoga da un punto di vista squisitamente fisico e tollero con un certo disagio, a volte con una certa ilare accondiscendenza, tutto il contorno di spiritualità, di sorriso del mondo e di anima dell'universo. Non è cinismo, almeno: non solo cinismo. Io ci provo, davvero. Ma ci sono proprio alcuni concetti in grado di scatenare il mio io più profondo, molto più di due ore di meditazione seduta sui talloni. Per l'esattezza questi:
- “lo scopo dello yoga è uscire dall'identificazione con la propria mente per riconoscere la propria anima ed entrare in armonia con la propria essenza, che è la stessa di tutto l'universo” . Questo mi è proprio difficile. Non esiste altra identificazione possibile che quella con il proprio cervello. Posso anche trovare una certa somiglianza con tutto il resto dell'universo e certi giorni sono bravissima a sentire l'armonia del creato, però... andiamo su! Io sono la mente! Esiste forse dell'altro?!
- “prima di iniziare è necessario arrendersi alla superiorità del cuore sul cervello”. Già. Non vorrei addentrarmi nella dibattutissima questione della lotta perenne tra ragione e sentimento, mi limito a segnalare che, in quanto geometra delle emozioni, io personalmente non sono dotata di cuore, il che mi rende impossibile una vera opinione al riguardo. In genere in questa fase della lezione, che si esaurisce entro i primi cinque minuti, io tengo le mani giunte ad altezza sterno come da istruzioni, lascio cadere la testa verso il petto e tasto di nascosto tra le costole in cerca di battito. Un paio di volte mi è parso di sentire qualcosa in effetti, ma non ci metterei la mano sul fuoco
- “liberatevi del tempo presente”. Andiamo bene. Qui è il caos: chi ti dice di non pensare al passato, chi ti dice che il futuro non ha futuro, un altro ti suggerisce di fissarti soltanto sul qui e adesso. Ecco no. Né ieri né oggi né domani: lo yoga pretende di regalarti l'assenza di tempo. Certo.


Temo di essere ancora lontana chilometri dalla saggezza.

domenica 11 ottobre 2009

Le cose che non ho mai messo

Qui nel nord ovest, sulle sponde dell’Eridano, il sole splende regalandoci un inaspettato autunno provenzale. Luce, tepore, azzurro e foglie che tardano a cadere sono un alibi insperato per rimandare uno dei doveri di stagione: il cambio di biancheria negli armadi. Io lo detesto, come molti credo. Mi rende la giornata difficile per tanti motivi, non solo perché nel giro di venti minuti pare che in camera mi sia esplosa una bomba di magliette, gonne e vestitini, ma soprattutto perché questo orrendo rituale mi costringe a trovarmi faccia a faccia con loro: le cose che non ho mai messo. Acquisti compulsivi ancora dotati di etichetta, torture di ballerine mai calzate, leggins improbabili, tshirt del novantaquattro che non metto più da secoli ma che ancora non riesco a buttare e che compiono la stagionale transumanza senza aver mai visto la luce. Del perché certe donne non riescono a liberarsi di apparentemente innocui pezzi di stoffa si potrebbe parlare a lungo (e senz’altro qualcuno l’avrà fatto), quello che a me interessa adesso è fare un breve, preventivo catalogo di ciò che troverò: quel vestito lunghissimo di lino rosso sbiadito dai tormenti dei lavaggi, che implora un onorevole pensionamento; quel mini abito optical a rombi neri che non metto dal duemilacinque; il top di lurex comprato un giorno che ero in deficit di autostima e che non ho mai messo nemmeno una volta; quelle tre gonne che non si fanno un giro da almeno due stagioni ciascuna; per non dire di quel golfino da zia pina che indosso soltanto in gran segreto. Potrei continuare, aggiungendo all’elenco i capi che ho messo un’unica volta, apposta per dire “questo in fondo lo uso ancora”. La cosa bella, però, è trovare a sorpresa abitini dimenticati, scoprire che sono fighissimi, ringraziare la provvidenza che ce li ha fatti conservare e tirarli fuori con tanto di charme alla prima occasione. Ecco, è per questo che le cose che non ho mai messo non verranno buttate nemmeno quest’anno.

martedì 6 ottobre 2009

Cronistoria di una telefonata

DOMENICA. L’ALBA.
Apro gli occhi e non so che ore sono. A occhio e croce, con la luce dietro le tende, direi che saranno al massimo le 5 e mezza. A dire il vero non realizzo nemmeno subito dove mi trovo. Dove diavolo sono? Ah, già, il giovane aspirante arpista. Certo. Nella sua casetta così assurdamente demodé, trentotto metri quadri di caos primordiale. È’ la prima volta che ci entro.
Ma come fai a dormire così profondamente, con una mezza sconosciuta nel letto? Io avrò chiuso gli occhi sì e no due ore, invece tu te la spassi di sonno. Certo che è veramente carino. Oh sì, molto carino, un gran figo di musicista. E io ci sono appena stata a letto, che brava!
Mmmh. A guardarlo così non sembra pericoloso. Voglio dire, io questo problema me lo pongo: ti trovi come niente a dividere le lenzuola con una persona che conosci da così poco. E se fosse un pazzo maniaco che finge di dormire, aspetta che io mi riaddormenti e mi soffoca con un cuscino? Magari è sonnambulo. Tra un momento tira fuori un rompi ghiaccio da sotto al letto e mi trafigge a occhi chiusi. E si rimette giù tranquillo a sognare in mezzo al mio sangue.
Ma no, che assurdità. Quella sveglia sono io. Potrei soffocarlo io nel sonno. Non lo preoccupa la cosa? Evidentemente no.
Ma quanto mi piace!
Solo che io proprio non riesco a dormire, accidenti. Che ci faccio qui? Sarà carino lasciare un biglietto e andarsene mentre dorme? No, non si fa. Ma chissà per quanto ancora può andare avanti così, senza dar segni di vita. E io che faccio? Mi scoccio. Sono sveglissima.
Dio santo che casino qui dentro. Magari mi alzo e gli lavo le tende. Gli stiro due camicie e gli metto in ordine i libri.


DOMENICA. SERA.
Me ne sono andata da quella casa alle 9, mi sono girata in quel letto per altre quattro ore e ho approfittato di una fessura tra le sue ciglia, una specie di impacciato dormiveglia, per dargli un bacio sul collo e dirgli ciao io vado ci sentiamo.
Ecco, ci sentiamo. Sono passate 13 ore. Quand’è che ci sentiamo? Il galateo cosa prevede? Non credo esista una normativa rassicurante in proposito. Rientrerà nel galateo andare a letto con un tizio, carino quanto vuoi, ma che conosci da mezza giornata? Boh.. È buona educazione mostrarsi impudicamente a un arpista appena conosciuto? Le signorine di buona famiglia lo farebbero? Loro non so. Io volentieri. Ma adesso è davvero un problema e le buone maniere vanno assecondate: chi chiama per primo?
Dai, fammi uno squillo. Suona telefono, dai. Anche solo un messaggino passata una buona giornata?


LUNEDI’. POMERIGGIO.
Sono le 3 e un quarto. Non mi chiama, non mi ha chiamata. Nemmeno il trillo di un messaggio. Niente di niente. Silenzio. Forse è un po’ troppo presto. Se mi chiama appena scattate le ventiquattr’ore c’è il rischio che tema che io pensi che è troppo invadente. Chiaro, no?


LUNEDI’. SERA.
Vado a dormire. Non ci siamo sentiti e penso che sia giusto: da quando in qua ci si chiama il giorno dopo aver fatto sesso? No, no. Queste cose si calcolano con ragionevole distacco. Silenzio. Ed è meglio così.


MARTEDI’. PRANZO.
Chiamami maledizione!


MARTEDI’. ORE 18.40.
Buonasera, tim, sono Lucia, posso aiutarla?

Sì, grazie. Ho un problema sulla linea.

Che tipo di problema?

Non ricevo telefonate né messaggi.

Ha un problema con il traffico entrante?

Penso di sì…

Facciamo una verifica. Qual è il numero?

339 ecc ecc

Intestato a?

Michela Digi

Mi sembra tutto a posto.

È sicura?

Bè, sì. Ha ricevuto una telefonata alle 18.32…

Sì, mia madre. Ma non conta. La linea quindi funziona?

Sì, funziona. Nessun problema.

Davvero?

Certo.

Ah. Grazie. Buonasera.

Buonasera.


MARTEDI. ORE 23.58.
Lo spengo o non lo spengo? Normalmente quando vado a dormire lo spengo, però magari lui è uno di quelli che ama le conversazioni notturne, gli piace mandare messaggi carini alle 3 del mattino. Non posso rischiare di perdermelo. Stanotte si dorme col telefono sul comodino. Acceso.


MERCOLEDI’. ORE 6.47.
La sveglia mi darebbe un bonus di altri 43 minuti e io sono già in piedi. Idiota idiota idiota. Tutto per un telefono muto. E se chiamassi io?


MERCOLEDI’. ORE 11.06.
Lo chiamo. Non lo chiamo. Lo chiamo. Non lo chiamo. Lo chiamo non lo chiamo lo chiamo o non lo chiamo? Magari un messaggio? No, i messaggi sono equivoci, in centosessanta caratteri ci stanno appena il mio nome e cognome, figuriamoci un saluto post orgasmico. O lo chiamo o non lo chiamo.


MERCOLEDI’. ORE 13.35.
La smetti di vivisezionare quel piatto di pasta?

Perché, tu quando aspetti una telefonata che non arriva cosa fai? Yoga?

In effetti sì.

E io affetto maccheroni al ragù in pezzi piccoli piccoli.

Senti, parliamone. Dunque non chiama.

No. È mercoledì. Sono passati, per intero, domenica lunedì martedì e oggi per metà.

Domenica non lo conterei.

E no. Non lo conteresti se ci avessi passato insieme la giornata. Ma dal momento che me ne sono andata al mattino presto la posso contare.

Sì, funziona.

Perché non chiama? Cosa ho sbagliato? Sarà perché gli ho riordinato casa?

Gli hai riordinato casa? Quella notte?

Ma no, la mattina. Non riuscivo a dormire.

E gli hai riordinato casa?

Giusto due cose…

Magari è timido.

No.

Ha una ragazza?

Non credo.

Il telefono rotto?

Mappperpiacere.

È andato tutto bene tra di voi?

Sì, tutto bene.

Ma bene del tipo ho-paura-di-farti-male o bene più tipo prendi-mordi-graffia-fammi-male?

Più la seconda direi.

Non è dunque il tipo che mentre fa sesso ti lascia il tempo di pensare che hai bisogno di un paio di scarpe nuove?

Assolutamente.

Quindi nessun disagio fisico.

Niente di cui abbia potuto accorgermi. Lo chiamo?

Non prima delle dieci di stasera.


MERCOLEDI’. ORE 21.57.
Non so se è la cosa giusta. Cosa diavolo gli dico? Se non ha avuto modo tempo e voglia di chiamare lui si vede che non gli interessa. Non ci vuole niente a chiamare una ragazza.
Forse non ci vuole niente a chiamare una ragazza con cui non hai ancora fatto sesso.
Che disastro. Se ora lo chiamo penserà che sono pazza di lui e non vedo l’ora di lasciare il mio spazzolino nel suo microscopico bagno. Oppure che sono la classica ragazza vinavil incapace di mantenere le giuste distanze. Potrebbe addirittura pensare che sono pronta a buttarmi ai suoi piedi, legarmi alle sue caviglie e stramazzare d’amore.
Che orrore. Non potrebbe pensare che avevo semplicemente voglia di sentirlo e basta?


MERCOLEDI’. ORE 22.04.
Sì, pronto

Ciao, sono Mich

Oh.

(oh??) Ciao

Ciao

(non si può dire che ti sforzi di mostrarti felice di sentirmi) Come va?

Mmmh, normale. Tu?

Mah, bene. Avevo voglia di sentirti

Ah

(potresti anche aiutarmi un po’ accidenti) Allora tutto bene? Cosa hai fatto in questi giorni? (penosa, non ho niente di più brillante da chiedergli?)

Le solite cose

Tipo? (adesso vomito)


Senti, c’è una cosa che devo dirti…

(finalmente) Che serio. Di che si tratta?

Ecco, io…

Cosa?

Io ho pensato tutti i giorni di chiamarti, davvero

(che tenero!) Sì?

Sì. Ma alla fine non ci sono riuscito. Sono molto in imbarazzo.

(molto che?) Che tipo di imbarazzo?

Sai, hai dormito qui, ero molto contento, ma poi…

(avanti, coraggio) Ma?

Non so bene come dirtelo

Hai una ragazza?

No, non è quello. Io…

(dio che fatica) Dai, non sarà così terribile

Dipende dai punti di vista. Tu comunque stai bene?

Bene, sì

Ma bene bene?

(prego?) Ssssì…

Ma proprio bene? Bene dappertutto?

(…??) Di cosa parli esattamente?

No, perché io non sono stato bene in questi giorni

(no no no no, ti prego, no) In che senso?

Ecco, ho una specie di sfogo eritemico

Un eritema?

Simile

(dove dove dove?) E dove?


Il medico ha detto che non sono infettivo, però comunque non sapevo come dirtelo e avevo fatto tutte quelle storie per non usare il preservativo, insomma, mi sentivo un po’ in colpa…

Di che diavolo stai parlando?

Ecco, ho delle bolle…

Delle bolle?

Sì, con delle piccole croste…

Bolle con le croste?!

Guarda, non c’è pericolo, sul serio, è una cosa mia

Tua? Dove? Dove le hai le bolle con le croste?

Davvero, mi spiace. Ma ti assicuro che non c’è pericolo…

DOVE???

Sul pisello