martedì 29 dicembre 2009

In corsia


La vicina di letto di mia madre viene dal maghreb, ha 3 anni meno di lei, 5 figli e 11 nipoti, che affollano la camera a turno. In preda alla confusione mentale favorita dall'anestesia, mia madre si lamenta pubblicamente dell'infertilità della cultura occidentale e della sua prole in particolare. Approfittando dello stato di confusione mentale favorito dall'anestesia, riesco a convincerla che può risolvere personalmente il problema facendo un altro figlio.

senza titolo


notte, prima di adesso non ho mai pensato abbastanza a lungo ai distillati di mele, calvados, che bella parola, mi piace come costringe la lingua a pensare, la mia testa ha perso cervello, chiudo gli occhi sul cranio vuoto

tra quattro ore di sonno sarà passata

domenica 27 dicembre 2009

Il film preferito


Ci sono due film che devo vedere durante le feste. Va bene anche solo scovarli per una manciata di minuti, non occorre l’intera visione. No, niente di modaiolo, nessuna ultima uscita al cinema: sto parlando del palinsesto televisivo natalizio. Ieri ho incrociato il primo di questi due film: I Goonies. Per chi non sapesse di che sto parlando (persona per la quale mi dispiaccio molto), si tratta di una cialtroneria d’avventura molto ben fatta il cui pubblico medio ha 10 anni: un gruppetto di bambini si mette sulle tracce di un tesoro piratesco che salverà dalla rovina economica la famiglia di uno di loro e permetterà l’arresto di una banda di imbranati criminali. Molta amicizia, molta avventura, qualche trovata trash infantile, zero volgarità e un sacco di buoni sentimenti. Nel complesso godibile: se mai ne avrò, lo farò vedere ai miei figli.
L’altro film che farò vedere ai miei figli è una favola romantica dall’happy end obbligatorio: Lady Hawke. Se non conoscete nemmeno questo potete piantarla subito di leggere. Anzi, di leggermi in assoluto, se mi volete dovete prendere tutto il pacchetto: la quota irritante e la quota dagli occhi a cuore (per quanto quest’ultima sia oggettivamente più rara). Dunque, Lady Hawke, dicevo, è una favoletta nella quale i due protagonisti, belli, atletici e medievali, sono vittima di un malefico incantesimo. I due si amano pazzamente ma non possono mai incontrarsi, benché vivano praticamente appiccicati: di giorno lui è un fustone a cavallo che si porta a spasso lei su una spalla, sotto le sembianze di un uccello rapace, di notte invece lei è una biondina diafana che vaga per i boschi insieme a lui, che le sgambetta accanto sotto forma di lupo. Dato che non voglio fare dello spoiler non vi racconterò come un simpatico ladruncolo li aiuterà a rompere l’incantesimo perché i due possano finalmente guardarsi negli occhi e amarsi.
Ecco, questi sono tra i miei film preferiti. Posso definirli tali senza timore di venir contraddetta: quando si parla di film preferiti siamo tutti bravissimi a citare i vari Kim Ki Duk, Kubrick, Tarantino, i Coen, facciamo a gara a citare il miglior film muto francese di sempre e robette così. Ochei, ci sto: se mi sfidate a chi ha i gusti cinematografici più colti e più snob potrei dire la mia. Ma qui si tratta del film preferito inconfessabile, quello che se lo vediamo ci riconcilia con il pomeriggio e con qualche nostro fanciullino dimenticato nella pancia (cosa che mi sarebbe difficile dire per la visione del bellissimo e soporifero, cito a caso, La mia notte con Maud di Eric Rohmer).

Bene, io ho confessato. Ora tocca a voi.

lunedì 21 dicembre 2009

Questione di flirting



Quando sto flirtando con un tipo carino e simpatico vorrei che se ne accorgesse. Non ci vuole molto, perché il mio interesse, quando c’è, ci tengo che si noti.
Un flirt deve seguire poche regole elementari, così riassumibili:

- entrambi i partecipanti al gioco devono esserne consapevoli e possibilmente consenzienti
- ci si sente con ludica frequenza e regolarità e, se non ci si sente, anche il non-sentirsi deve essere studiato e funzionale alla suspense
- tale regolarità non è da confondersi con tristi forme di abitudine e non implica il sentirsi tutti i giorni a mezzogiorno, significa piuttosto che si ha voglia di far capolino molto spesso e che questa voglia deve essere tangibilmente reciproca
- se il flirt si accompagna a una qualche forma di invaghimento (eventualità che non diamo per scontata) è senz’altro più divertente

Ora, detto questo, mi spieghi che diamine stiamo facendo io e te? Abbiamo passato una notte insieme, è stato carino, non preventivato e mi pare che ci si è divertiti, no? Ora dobbiamo decidere se è il caso di rifarlo o di lasciar perdere. Ci risentiamo un paio di volte per tastare il reciproco interesse e alla fine, lo ammetto, cedo alla tentazione del messaggio etilico delle 2 del mattino. E tu che fai? Niente. Forse a quell’ora stavi dormendo nel tuo letto e il tuo telefono era spento. Forse non l'hai acceso per buona parte della mattina successiva. Forse, una volta acceso, ti sei preso un po' di tempo per rileggere il mio “verrei lì a farti vedere alcune nuove posizioni di yoga che ho imparato” e decidere se e cosa rispondere. Ammettiamo tutto. Ma mi spieghi perché all’alba del secondo giorno il mio messaggio è ancora senza risposta? A ripensarci da sobria mi fai pentire di aver voluto fare la carina.
E una donna detesta doversi pentire di aver fatto la carina.
Stavamo flirtando, ti ricordi? Soprattutto, te ne eri accorto? Vabbè, me ne farò una ragione, non sei insostituibile. Ma quando decido di lasciar perdere e pensare ad altro, dopo due giorni pieni, tu rispondi “ciao, come stai? ceni da me una di queste sere?”. Vorrei tenerti un po’ sulla corda ma, incoraggiata dall’invito, dopo due sole ore ti rispondo: “volentieri, quando?”. Cosa c’è di difficile? Non mi pare complicato: mi inviti e io accetto, ora c’è una domanda precisa, “quando?”. Una giovane donna disponibile ti ha promesso acrobazie sessuali e ti chiede esplicitamente quando può venire a mantenere la sua promessa e tu che fai? Niente. Sparisci altri due giorni.
Sappi che a questo punto della faccenda io ho iniziato a parlare di te come della “bietola”, cosa di cui le mie amiche ridono molto. Ho dato loro in pasto i tuoi pochi messaggi e sappi che li hanno fatti a pezzi, che sono stati retoricamente centrifugati, che mi stanno dicendo che questo flirt non è un flirt, che sei poco sveglio e che non sai giocare. Non sai giocare, capito? È il peggio che possa capitare a una donna un uomo che non sa giocare.
Intanto, il mio “quando?” resta senza risposta altri tre giorni. A metà del quarto rispondi: “non lo so, devo andare dal dentista”. Al che perdo le speranze e faccio una battuta sulla tua incapacità di fare inviti e sulla tua goffa galanteria a lunga scadenza, ma non capisci l’ironia e invece di rilanciare e farmi dimenticare in qualche modo la tua imperdonabile incompetenza con l’antica arte del flirt mi prendi sul serio e continui: “non è che non ti voglio vedere ma ho delle giornate un po’ complicate, tu che dici?”.
Io non dico niente e vado al mare con un altro.

martedì 15 dicembre 2009

lunedì 14 dicembre 2009

Le parole delle emozioni

Oggi mi occupo di un tema inflazionato da secoli di speculazioni poetiche: l’espressione dei sentimenti. Quando se ne parla siamo tutti bravi a descriverci sostanzialmente in due modi:

1. Oh! Io sono un'istintiva, non posso fare a meno di dire quello che penso e manifestare ciò che provo

2. Macché istinto! Io nascondo, dissimulo, mistifico e reprimo

Per quanto riguarda me, escludo categoricamente l'opzione 1 e mi assesterei su una variante della 2, una 2/bis diciamo: macché istinto! Io ci proverei anche a farti vedere che mi emoziono, solo che non ne sono capace. Non ho mai imparato veramente a farlo, oppure ho disimparato strada facendo, il che è uguale. È una forma di inettitudine, lo so: anni di controllo sulla realtà mi hanno assuefatta a un regime di autodisciplina a detta di alcuni un filo eccessivo. Che poi il controllo della realtà non sia altro che una delle mie illusioni preferite è un problema a parte, che non è qui il caso di affrontare.
Insomma, voi come vi regolate? Non è mica una roba scontata. Io riesco a manifestare solo emozioni note, quelle che ho avuto il tempo di metabolizzare, potremmo chiamarle emozioni premeditate, il che priva il contesto della sua caratteristica fondamentale: la spontaneità. Quando si tratta di improvvisare, e nella vita reale diciamo che capita di frequente, è un casino: sono maldestra, faccio e dico cose imbarazzanti, perdo senso logico e sintassi. Un disastro insomma.
So che esiste una patologia che descrive in parte questo fenomeno: si chiama alessitimia e letteralmente significa non avere le parole per le emozioni. A volte temo di esserne affetta.

giovedì 10 dicembre 2009

Pensiero spaesato


Ma quando penso che non devo pensare a un certo pensiero pensato, in realtà a cosa sto pensando? A quel certo pensiero impensato oppure a un pensiero sperato? O forse è un pensiero smarrito?


venerdì 4 dicembre 2009

Com'è il tempo?


ciao,
cercavo un pretesto per scriverti (i pretesti servono quando si teme di disturbare, nel senso che devi avere una buona ragione per farlo, se proprio devi farlo); ho persino pensato a qualcosa di meteorologico, tipo che tempo fa lì e cose del genere
poi ho lasciato perdere

mercoledì 2 dicembre 2009

Rubrica: Ventricoli Epistolari/1

Mich,
ti scrivo per proporti una storia di baci non dati.
I protagonisti sono me stesso e una mia ex amica che avrebbe dovuto far carriera salendo nella scala mobile delle mie carezze fino al ruolo di quadro, per essere poi appesa nella mia cameretta in una posizione tale da consentirmi di guardarla tutte le sere prima di addormentarmi... ma come avrai capito, così non è stato.Allora, andiamo con ordine. Noi due ci conosciamo da anni, non siamo amici ma neppure semplici conoscenti. Non ci telefoniamo, non trascorriamo serate assieme, non andiamo a cena assieme, né da soli né con altre persone, però quando casualmente ci incontriamo scopriamo quanto ci faccia piacere parlare, ma poi la cosa finisce lì (dimenticavo: lei è molto carina).Un paio di mesi fa, in uno di questi fortuiti incontri, scopriamo che vogliamo andare a vedere lo stesso film al cinema... e così iniziamo a vederci. Dopo quel film ce ne sono stati due ogni settimana, e dopo ogni film ci sono state ore di chiacchiere, durante ogni film ci sono stati gomiti che piacevolmente facevano finta di toccarsi per caso, ma poi non si staccavano più fino ai titoli di coda.
Io, perso nelle indicazioni del Tom Tom della mia mente, non ci capivo più nulla... sino a quando, dopo l'ennesimo film, sono sbottato dicendole che la nostra situazione era quanto meno ambigua, che io ero in confusione completa, che stare con lei diventava sempre più piacevole e dunque... dunque... cosa poteva rispondermi lei? Che questa cosa l'ha notata, non può dirmi che siamo amici, però non si sente neppure di dirmi che siamo qualcosa di più.Continuiamo a vederci, tutto bene ma non riusciamo a rompere la quarta parete, Mich, nonostante il desiderio di baciarla... eravamo entrambi bloccati.Piano piano io mi sono lasciato contrarre e opacizzare dalle cose non dette, lei ha perso naturalezza almeno quanto me e una sera, in mezzo a questo cataclisma, ci siamo baciati.A questo punto io, nonostante la vedessi spesso titubante, provo a materializzare i nostri sogni con delle proposte, ma puntualmente quando metto la minigonna ai nostri pensieri lei dice che ha freddo. La scorsa settimana le chiedo un incontro e ci troviamo per un caffè. Io le rigetto addosso tutti i miei pensieri, ma non credo che le interessi poi così tanto, le cose o succedono o si fanno succedere. Risponde che in questo momento ha molti dubbi, è confusa, che le dispiacerebbe non vedermi più, ma mi capirebbe se decidessi di dire basta. Io le spiego che per me vederci così non ha più senso, l'antipasto era buono e ora o pago il conto o mi servono tutte le altre portate, io seduto senza mangiare proprio non so stare. Ci baciamo e ci voltiamo le spalle... fine. Continuiamo reciprocamente a spiarci da settimane attraverso commenti lasciati ad arte tra un social network e l'altro, ma non ci siamo più né visti né sentiti.
Allora, che ne dici?
Grazie, a presto
Aiace d'Antipasto


Caro Aiace,
mi scuserai se adesso la minigonna ai pensieri la metto io, fammi sapere se ti viene freddo. Comincio col dire a tutti quanti che l'autore della lettera non ha 15 anni e presumibilmente nemmeno la sua amata. Mi sento anche di difendere la pessima scelta dell'espressione “l'antipasto era buono e ora o pago il conto o mi servono tutte le altre portate”: è orrenda, ma voglio sperare che lui non l'abbia detta ad alta voce (non l'hai fatto vero? Vero?).
Ammettiamo per un momento che tra di voi ci sia (stato) qualcosa di molto potente da un punto di vista cerebrale, ammettiamo che un uomo e una donna possano andare al cinema insieme due volte la settimana per un numero eccessivo di settimane senza sfiorarsi mai nient'altro che gli avambracci, ammettiamo anche che si siano divertiti a guardarsi negli occhi con i nasi a due centimetri raccontandosi vicendevolmente quanto stessero bene a condividere tutto tranne la pelle. Ammettiamo l'inammissibile. Ma a un certo punto qualcosa deve succedere. Deve. Se non succede significa che non lo desiderate abbastanza. Punto. Né tu né lei. So per certo, e mi perdonerai se lo svelo a tutti quanti, che non sei esattamente il tipo da amor cortese, sei un interventista del sentimento e della mano morta, uno a cui non manca la pratica, insomma, mica uno che se ne può stare occhi negli occhi con una donna a scambiarsi caste manifestazioni di stima. Cos'è che ti ha bloccato? Cos'è che vi ha impedito di scambiarvi saliva e umori? Parlarsi addosso ammazza l'eros e inibisce gli ormoni. Poi sai che a me piace analizzare le scelte lessicali altrui: inorridita per l'infelice uscita sull'antipasto, sono costretta a rabbrividire anche per la storia del quadro. Tu a un certo punto, proprio all'inizio della tua lettera, dici che lei “avrebbe dovuto far carriera salendo nella scala mobile delle mie carezze fino al ruolo di quadro, per essere poi appesa nella mia cameretta”. Santocielo! Ma ti sei riletto?? Un quadro?! Hai desiderato che lei diventasse un quadro davanti cui mettersi in ammirazione? Un trofeo o una musa? Ma lo sai che le muse sono le creature meno erotiche della storia? Sono lì, immobili e intoccabili nella loro perfezione. Il minimo che può succederti, quando cerchi di sfiorarle, è che ti si ritragga anche la mano (figuriamoci il resto).
E poi cosa intendi esattamente quando dici “provo a materializzare i nostri sogni”? I sogni di chi? E di che sogni stai parlando? Credo che la situazione sia chiara per tutti. Anche per te. Sì sì, non fare quella faccia: tu sai benissimo cosa devi o non devi fare adesso, cioè assolutamente niente. Sei stato immobile per settimane, restarci un altro po' potrebbe essere sensato.
E voi che ne dite? Aiace è tutto vostro: sbizzarritevi.


PS. mentre chiedevo delibera all'interessato per la pubblicazione di quanto sopra ho scoperto che la storia ha subito un'evoluzione. Si accettano scommesse su tali sviluppi.

lunedì 30 novembre 2009

Rubrica: Ventricoli Epistolari/0


A grande richiesta (ben tre lettori) torna una rubrica a me molto cara: i Ventricoli Epistolari. Per chi non avesse mai seguito il mio vecchio blog, ormai pensionato da tempo, ripropongo qui qualche riga della presentazione originale.

Nasce oggi una nuova rubrica: troverà spazio sulle mie pagine di tanto di in tanto. Naturalmente, è una posta del cuore. Approfitterà impudicamente e sfacciatamente delle vostre lettere, dei messaggi che ricevo, che interrogano e mi interrogano. E le risposte (avviso in proposito i miei venticinque lettori) saranno pubbliche, in mondovisione. Una degenerazione dell’esibizionismo insomma, tanto mio quanto vostro ovviamente.
Ognuno di voi è invitato, qui sotto, a dare buoni consigli, se non può più dare cattivi esempi. E comunque, i cattivi esempi, sono eventualmente i benvenuti.
(Per quanto riguarda la vostra identità, la tutelerò come posso. Ma usatemi prudenza).

Questa fu la prima lettera, con relativa risposta:

Mich,
a occhio e croce domani prenderò un coltello da cucina, mi aprirò il torace, tirerò via il cuore e lo sostituirò con una pompetta corazzata in titanio.Dopo, mi scalotterò il cranio e rimuoverò amigdala, nuclei ipotalamici e altri centri responsabili delle emozioni. Se effettivamente succederà ti mando i resti sanguinolenti, ok?
Geck lo Squartatore

Caro Geck,
una volta che ho tentato di imbalsamare l’ipotalamo mi è venuto il fuoco di sant’antonio. Più un’altra serie di disturbi psicosomatici che non è il caso di dettagliare. Poi ci si impratichisce e, con l’aiuto dell’algebra e della geometria, si trasformano le emozioni in equazioni. Bastano un manuale, un paio di formule e passa tutto. Si sta divinamente. Il problema, quando si va a spasso convinti di essere inoppugnabili come un assioma, è che al primo numerino che disfa la formula ce ne andiamo beatamente in frantumi. Può darsi comunque che a te l’esperimento riesca, chissà. Aspetto impaziente i tuoi avanzi biliari e ciò che resta del tuo cuore.

I nomi vengono cambiati da me, a meno che non ne scegliate uno. Il tema, invece, lo proponete voi: cuori infranti, amori a pezzi, sentimenti puri e impuri, dolori, tremori, gioie violente, fedeli e infedeli, spasimanti molesti. Quel che vi pare. Naturalmente chi scrive qui sa che corre il rischio serio che la sua lettera venga fatta a pezzi, a scopo ludico, da me e dai lettori. Non facciamo psicologia, crediamo solo nel potere dissacratorio della parola.

L'indirizzo è questo: ascopoludico@gmail.com

martedì 24 novembre 2009

Ci siamo già visti?

Ho un problema: non riesco a ricordarmi delle persone. Pensavo fosse un disturbo della memoria fotografica, invece pare sia un disturbo della personalità.

Oddio, parlo come una disadattata.

Comunque, il concetto è questo: ricordo i volti con grande difficoltà, i nomi li rimuovo all’istante, forse non li ascolto nemmeno, e il contesto dell’incontro sbiadisce nei suoi contorni dopo un minuto. Il risultato è che sono in grado di presentarmi tre volte di fila alla stessa persona, con momenti di grande imbarazzo quando la persona in questione non solo mi saluta calorosamente chiamandomi per nome, ma ricorda anche precisi dettagli di nostre conversazioni che, per quanto mi riguarda, non sono mai avvenute.

Ora, i casi sono due: non sono attenta al prossimo mio perché ritengo che non abbia niente di interessante da dirmi, oppure non sono attenta al prossimo mio perché sono troppo impegnata io a trovare qualcosa di interessante da dire. In entrambi i casi non ci esco a testa alta, perché manifestare scarsa attenzione verso il proprio interlocutore, per qualunque motivo succeda, non è carino a prescindere. E non solo nella mia vita mondana: potrei infatti elencare alcune clamorose amnesie facciali anche nella vita professionale. Il che è molto grave quando parte del tuo lavoro è fatto di pubbliche relazioni.

Ma non c'è niente da fare. L'altra sera, per dire, mi ci sono impegnata: c'erano quattro persone nuove a cena e ho deciso che, anche a costo di prendere appunti, avrei dovuto ricordarmi i nomi e quantomeno una caratteristica ciascuno. Una qualunque: il colore dei capelli, della maglia, un tic, una fobia, la professione, qualcosa insomma. A cinque giorni da quella cena ricordo tre nomi su quattro, cosa che rappresenta un mezzo record, ma nemmeno un colore di occhi. Non so se qualcuno di loro porta gli occhiali né se hanno la barba. E i tre nomi che ricordo, naturalmente, non saprei abbinarli a un volto. Ricordo dettagli delle conversazioni, ma non ricordo affatto chi ha detto cosa.

Che devo fare? Mh? Scattare fotografie di nascosto e fare l'album a fine serata? Credo che dovremmo tutti riuscire a presentarci impressionando in qualche modo la memoria di chi ci stringe la mano. Con me fatelo. Dovesse capitarvi di conoscermi ricordatevene e ditemi qualcosa di sconcertante: piacere sono Nicola e mi piace dormire su un letto di chiodi; ciao, io sono Lucia e quella che stringi è una mano finta; ah, io sono Eugenio e martedì scorso mi hanno rapito gli alieni. Cose così insomma. Non so, magari funziona.

martedì 17 novembre 2009

Opzione vivavoce

Se pensate che il mio parlare delle parole senza in effetti pronunciarle mai stia nascondendo una voce orrenda, avete in parte ragione: superati i primi minuti durante i quali, perfettamente impostata, esaurisco le mie competenze di dizione e la capienza vocale del mio diaframma, mi capita di starnazzare. Ho una voce un po’ gallina insomma. Ma non la vivo con imbarazzo a meno che, ovviamente, non mi chiediate di cantare. Quello non lo farò mai. Mai più ad essere precisi. Una volta un ragazzo per il quale avevo perso la testa mi chiese di dimostrargli quanto fossi in effetti stonata. Stetti al gioco e gli cantai il ritornello di Medusa Cha Cha Cha, di Vinicio Capossela. La conoscete? Ecco, immaginate un fagiano che esala, stridulo, l’ultimo respiro e avrete la mia performance. Ho sempre avuto il sospetto che fu questo il motivo per cui decise di uscire dalla mia vita.

lunedì 16 novembre 2009

Se non ne parli ad alta voce non esiste


Quando cedi alla tentazione di dar voce ai pensieri è un casino. Dar voce in senso fisico intendo, oralmente, non conta la parola scritta. Dar voce dal vivo, con un interlocutore che interviene in tempo reale, che potrebbe dire la sua e portare la tua parola altrove, ripensandoci in tua assenza, citandola nelle conversazioni, in una diramazione inarrestabile di mi hanno detto che gli hanno detto che mich ha detto. Se facessero la stessa cosa con queste parole qui, belle composte e scritte, sarebbe molto diverso: sono certo interpretabili, d’accordo, ma sono immodificabili, se torni a leggerle fra un mese saranno formalmente uguali. Con la parolaparlata non funziona così e ci si espone con un controllo inferiore: non puoi rileggerti, non puoi riformulare, non puoi fermarti a metà per dire che no, non volevo dire quello che ho detto. Naturalmente trattasi, appunto, di una tentazione cui si finisce per cedere, perché scambiarsi dal vivo parole (che non è parlare con) è bello, è divertente, è impegnativo ma ripaga con generosità della fatica che costa saperlo inventare. Ci troviamo così, a volte senza averlo nemmeno preventivato, a parlare e dar forma fisica a concetti altrimenti esistenti soltanto dentro al nostro cervello o sulle pagine di un taccuino, più o meno virtuale. Il che significa che non esistono, perché prendono realmente forma nello scambio e nella condivisione. Non si tratta necessariamente di pensieri altamente filosofici o di capitale importanza teorica, anzi, a volte si tratta di banalità, di considerazioni semplici, di piccole cronache del quotidiano. Ma una volta che le hai dette ad alta voce iniziano improvvisamente a prendere corpo, ti stanno di fronte e le puoi guardare come estranei, come altro da te. Non ti appartengono più. Io sono molto gelosa delle mie parole, anzi: sono possessiva, che è diverso. Sono mie solo se le ho scritte: vengono lette e iniziano a vivere di vita propria, d’accordo, ma in realtà continuano in un certo senso a restarsene lì, ferme nella loro sintassi. Quando invece le ho parlate regalo loro da subito l’indipendenza. È un regalo che faccio volentieri, ma non spesso.

lunedì 9 novembre 2009

Davvero me lo stai chiedendo?

Ci sono domande che, in coppia, sarebbe meglio evitare. La questione è stata recentemente sollevata da una mia amica che ha chiesto a quello che credeva il suo fidanzato “che cosa siamo io e te?”. In tutta risposta, il genio del crimine, si è dileguato nel nulla dopo aver farfugliato qualcosa tipo "E' tempo che io vada". Ecco, il problema in fondo è questo: siamo proprio sicuri di voler sapere come stanno le cose? E quando siamo noi gli interrogati, metteremmo la mano sul fuoco che chi abbiamo di fronte voglia sapere null’altro che la verità? O sta, stiamo, piuttosto cercando conferme e rassicurazioni? Farò qualche esempio.

Una volta ho chiesto a un ragazzo con cui uscivo da poco: c’è qualcosa che non ti piace di me? Ovviamente la mia era una domanda tendenziosa e la risposta esatta era soltanto una: mi piace tutto di te, baby. Lui ci pensò un attimo e disse: i polpacci. Nonostante sia passato un lustro, ogni tanto il complesso dei polpacci mi torna.

E che dire di: quanti uomini (o donne) hai avuto prima di me? Un evergreen. Io non lo chiedo mai. E preferirei che non mi venisse chiesto. Detesto il balletto delle competizioni che la risposta potrebbe generare. Una tonnellata di insicurezze, anche negli individui più navigati. In fondo, che siano stati 5 o 75, se tra me e te adesso funziona tanto bene, che cosa ti cambia se ti dico un numero?

E per restare sull’intramontabile: mi hai mai tradito? Vi prego. Io non ci tengo a saperlo, assolutamente. Cosa volete che vi rispondano? Sì, no, forse, solo col pensiero, solo una volta ma giuro è stato solo sesso. Maddai. Siamo seri. È una domanda da fare soltanto per gioco. Io, per tenere viva la conversazione, rispondo sempre di sì.

E poi un altro classico: a cosa stai pensando? Maledizione, ma perché non ci facciamo un nodo alle corde vocali invece di uscircene periodicamente con questa fesseria? A parte il fatto che io, quando me lo chiedono, non rispondo quasi mai la verità, a meno che la verità non contempli qualcosa di più che lecito o di assolutamente pertinente al contesto (cosa rarissima). Come ci viene in mente di porre un quesito tanto idiota? Una volta l'ho chiesto a un tipo che mi piaceva da morire con il quale avevo appena fatto l’amore e da cui ovviamente mi aspettavo una carineria, lui mi rispose: non mi ricordo più il pin del bancomat.

E ne ho un’altra. Un’altra domanda da dementi: ti è piaciuto? Ecco che scatta la mania del voto. Perché? Non ci basta venir logorati da settecentomila paranoie? Ne vogliamo un’altra? E chi ci assicura che ci stiano rispondendo la verità? Fidiamoci della nostra sensibilità fisica e della nostra capacità di giudizio per favore, sempre che non siano state obnubilate dai sensi. E lasciamo perdere il questionario.

E all’elenco potremmo aggiungere: cosa preferisci di me? Ti è simpatica la mia migliore amica? Ti manco? Ti posso chiamare ogni volta che ti penso? Mi trovi ingrassata? E, per concludere, il mitologico: mi ami?

E voi? Ci sono domande che non avreste mai voluto fare o davanti alle quali avete spalancato gli occhi e detto: davvero me lo stai chiedendo?

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vuoi un pochino del mio raffreddore?

sì, grazie, ne prendo volentieri una fettina




lunedì 2 novembre 2009

Romanticheria


e poi non mi dici mai cosa ti piace di me

non è vero: ti dico in continuazione che mi piace il tuo culo



lunedì 26 ottobre 2009

Se fa male vuol dire che fa bene



Se fa male vuol dire che fa bene. Me lo diceva sempre mia nonna quando mi disinfettava le ferite vive con l'alcool puro. Era sempre così: io mi sbucciavo un ginocchio giocando in giardino e mi veniva da piangere non tanto per la sbucciatura in sé, ma perché temevo il momento in cui avrei dovuto presentarmi da lei per la medicazione di rito. Ogni tanto facevo finta di niente, continuavo a giocare e rientravo in casa a sangue ormai rappreso, con una crosta di fango e piastrine. Lei mi beccava subito, prendeva lui, il maledetto denaturato, e via: fiotti di liquido infiammabile per togliere la crosta di impurità e pulire a fondo la ferita ancora fresca. Per fortuna la ricerca scientifica, tra le sue mirabili scoperte mediche, ha incluso quella che ha portato alla diffusione dei disinfettanti che non bruciano. E fanno bene lo stesso. Capito? Non fanno male e, nonostante questo, fanno bene. L'ho presa alla lontana per parlare di questa cosa: è proprio necessario stare male, contorcersi dal dolore, soffrire e disperarsi per stare bene? Qualche volta sì, ma ho il ragionevole dubbio che, mentre mi arrotolo in una posizione di yoga dai conclamati benefici, se sento cric a livello delle rotule e poi zoppico, quei benefici li vedrò molto difficilmente. L'acido lattico, per dirne un'altra, se vi devasta per giorni dopo aver fatto palestra, immagino che non vi stia facendo bene affatto. Quando lo abbiamo inventato questo culto del dolore? Sospetto che il catechismo abbia avuto i suoi meriti, insieme a tanta bella educazione al senso di colpa: stai male, non importa per cosa, stringi i denti ché di certo te lo sei meritato. Una forma di espiazione insomma. Ecco, io me ne vorrei liberare. Sia dal concetto di espiazione che, quando possibile, dal concetto di dolore. Devo stare per forza male per tornare a stare bene? Ammetto che, a un certo livello, detta così faccia parte del ciclo naturale delle cose. Però. Accidenti. D'accordo. Devo stare male. Ma per quanto?

lunedì 19 ottobre 2009

La saggezza del mondo


Faccio yoga da tre anni. Il che significa che da circa tre anni mi arrotolo e riallungo periodicamente di fronte a contorsionisti che parlano per metà di posizioni, le poetiche asana, e per metà di respiri del mondo. Il tutto possibilmente con le caviglie accanto alle orecchie e senza mai perdere il sorriso. Mi piace. Mi piace la sensazione di essere un paio di centimetri più alta subito dopo, mi piace scoprire che rassoda il sedere, modella il ventre, snoda le gambe. Mi piace indagare i limiti delle mie giunture e sollecitare le articolazioni. Per non dire dell'indolenzimento del giorno dopo, quello che coinvolge muscoli insospettabili e ti fa dire con soddisfazione “oh yesss, se fa male vuol dire che funziona” (questa è una grandissima scemenza: ci farò su un pezzo un giorno, un trattatello sul perché se fa male fa male e non è affatto detto che faccia anche bene). Comunque, esistono molti tipi di yoga, ma io per semplicità ne distinguo due: quello in cui si prega e quello in cui si suda. Io preferisco il secondo: mi piace lo yoga da un punto di vista squisitamente fisico e tollero con un certo disagio, a volte con una certa ilare accondiscendenza, tutto il contorno di spiritualità, di sorriso del mondo e di anima dell'universo. Non è cinismo, almeno: non solo cinismo. Io ci provo, davvero. Ma ci sono proprio alcuni concetti in grado di scatenare il mio io più profondo, molto più di due ore di meditazione seduta sui talloni. Per l'esattezza questi:
- “lo scopo dello yoga è uscire dall'identificazione con la propria mente per riconoscere la propria anima ed entrare in armonia con la propria essenza, che è la stessa di tutto l'universo” . Questo mi è proprio difficile. Non esiste altra identificazione possibile che quella con il proprio cervello. Posso anche trovare una certa somiglianza con tutto il resto dell'universo e certi giorni sono bravissima a sentire l'armonia del creato, però... andiamo su! Io sono la mente! Esiste forse dell'altro?!
- “prima di iniziare è necessario arrendersi alla superiorità del cuore sul cervello”. Già. Non vorrei addentrarmi nella dibattutissima questione della lotta perenne tra ragione e sentimento, mi limito a segnalare che, in quanto geometra delle emozioni, io personalmente non sono dotata di cuore, il che mi rende impossibile una vera opinione al riguardo. In genere in questa fase della lezione, che si esaurisce entro i primi cinque minuti, io tengo le mani giunte ad altezza sterno come da istruzioni, lascio cadere la testa verso il petto e tasto di nascosto tra le costole in cerca di battito. Un paio di volte mi è parso di sentire qualcosa in effetti, ma non ci metterei la mano sul fuoco
- “liberatevi del tempo presente”. Andiamo bene. Qui è il caos: chi ti dice di non pensare al passato, chi ti dice che il futuro non ha futuro, un altro ti suggerisce di fissarti soltanto sul qui e adesso. Ecco no. Né ieri né oggi né domani: lo yoga pretende di regalarti l'assenza di tempo. Certo.


Temo di essere ancora lontana chilometri dalla saggezza.

domenica 11 ottobre 2009

Le cose che non ho mai messo

Qui nel nord ovest, sulle sponde dell’Eridano, il sole splende regalandoci un inaspettato autunno provenzale. Luce, tepore, azzurro e foglie che tardano a cadere sono un alibi insperato per rimandare uno dei doveri di stagione: il cambio di biancheria negli armadi. Io lo detesto, come molti credo. Mi rende la giornata difficile per tanti motivi, non solo perché nel giro di venti minuti pare che in camera mi sia esplosa una bomba di magliette, gonne e vestitini, ma soprattutto perché questo orrendo rituale mi costringe a trovarmi faccia a faccia con loro: le cose che non ho mai messo. Acquisti compulsivi ancora dotati di etichetta, torture di ballerine mai calzate, leggins improbabili, tshirt del novantaquattro che non metto più da secoli ma che ancora non riesco a buttare e che compiono la stagionale transumanza senza aver mai visto la luce. Del perché certe donne non riescono a liberarsi di apparentemente innocui pezzi di stoffa si potrebbe parlare a lungo (e senz’altro qualcuno l’avrà fatto), quello che a me interessa adesso è fare un breve, preventivo catalogo di ciò che troverò: quel vestito lunghissimo di lino rosso sbiadito dai tormenti dei lavaggi, che implora un onorevole pensionamento; quel mini abito optical a rombi neri che non metto dal duemilacinque; il top di lurex comprato un giorno che ero in deficit di autostima e che non ho mai messo nemmeno una volta; quelle tre gonne che non si fanno un giro da almeno due stagioni ciascuna; per non dire di quel golfino da zia pina che indosso soltanto in gran segreto. Potrei continuare, aggiungendo all’elenco i capi che ho messo un’unica volta, apposta per dire “questo in fondo lo uso ancora”. La cosa bella, però, è trovare a sorpresa abitini dimenticati, scoprire che sono fighissimi, ringraziare la provvidenza che ce li ha fatti conservare e tirarli fuori con tanto di charme alla prima occasione. Ecco, è per questo che le cose che non ho mai messo non verranno buttate nemmeno quest’anno.

martedì 6 ottobre 2009

Cronistoria di una telefonata

DOMENICA. L’ALBA.
Apro gli occhi e non so che ore sono. A occhio e croce, con la luce dietro le tende, direi che saranno al massimo le 5 e mezza. A dire il vero non realizzo nemmeno subito dove mi trovo. Dove diavolo sono? Ah, già, il giovane aspirante arpista. Certo. Nella sua casetta così assurdamente demodé, trentotto metri quadri di caos primordiale. È’ la prima volta che ci entro.
Ma come fai a dormire così profondamente, con una mezza sconosciuta nel letto? Io avrò chiuso gli occhi sì e no due ore, invece tu te la spassi di sonno. Certo che è veramente carino. Oh sì, molto carino, un gran figo di musicista. E io ci sono appena stata a letto, che brava!
Mmmh. A guardarlo così non sembra pericoloso. Voglio dire, io questo problema me lo pongo: ti trovi come niente a dividere le lenzuola con una persona che conosci da così poco. E se fosse un pazzo maniaco che finge di dormire, aspetta che io mi riaddormenti e mi soffoca con un cuscino? Magari è sonnambulo. Tra un momento tira fuori un rompi ghiaccio da sotto al letto e mi trafigge a occhi chiusi. E si rimette giù tranquillo a sognare in mezzo al mio sangue.
Ma no, che assurdità. Quella sveglia sono io. Potrei soffocarlo io nel sonno. Non lo preoccupa la cosa? Evidentemente no.
Ma quanto mi piace!
Solo che io proprio non riesco a dormire, accidenti. Che ci faccio qui? Sarà carino lasciare un biglietto e andarsene mentre dorme? No, non si fa. Ma chissà per quanto ancora può andare avanti così, senza dar segni di vita. E io che faccio? Mi scoccio. Sono sveglissima.
Dio santo che casino qui dentro. Magari mi alzo e gli lavo le tende. Gli stiro due camicie e gli metto in ordine i libri.


DOMENICA. SERA.
Me ne sono andata da quella casa alle 9, mi sono girata in quel letto per altre quattro ore e ho approfittato di una fessura tra le sue ciglia, una specie di impacciato dormiveglia, per dargli un bacio sul collo e dirgli ciao io vado ci sentiamo.
Ecco, ci sentiamo. Sono passate 13 ore. Quand’è che ci sentiamo? Il galateo cosa prevede? Non credo esista una normativa rassicurante in proposito. Rientrerà nel galateo andare a letto con un tizio, carino quanto vuoi, ma che conosci da mezza giornata? Boh.. È buona educazione mostrarsi impudicamente a un arpista appena conosciuto? Le signorine di buona famiglia lo farebbero? Loro non so. Io volentieri. Ma adesso è davvero un problema e le buone maniere vanno assecondate: chi chiama per primo?
Dai, fammi uno squillo. Suona telefono, dai. Anche solo un messaggino passata una buona giornata?


LUNEDI’. POMERIGGIO.
Sono le 3 e un quarto. Non mi chiama, non mi ha chiamata. Nemmeno il trillo di un messaggio. Niente di niente. Silenzio. Forse è un po’ troppo presto. Se mi chiama appena scattate le ventiquattr’ore c’è il rischio che tema che io pensi che è troppo invadente. Chiaro, no?


LUNEDI’. SERA.
Vado a dormire. Non ci siamo sentiti e penso che sia giusto: da quando in qua ci si chiama il giorno dopo aver fatto sesso? No, no. Queste cose si calcolano con ragionevole distacco. Silenzio. Ed è meglio così.


MARTEDI’. PRANZO.
Chiamami maledizione!


MARTEDI’. ORE 18.40.
Buonasera, tim, sono Lucia, posso aiutarla?

Sì, grazie. Ho un problema sulla linea.

Che tipo di problema?

Non ricevo telefonate né messaggi.

Ha un problema con il traffico entrante?

Penso di sì…

Facciamo una verifica. Qual è il numero?

339 ecc ecc

Intestato a?

Michela Digi

Mi sembra tutto a posto.

È sicura?

Bè, sì. Ha ricevuto una telefonata alle 18.32…

Sì, mia madre. Ma non conta. La linea quindi funziona?

Sì, funziona. Nessun problema.

Davvero?

Certo.

Ah. Grazie. Buonasera.

Buonasera.


MARTEDI. ORE 23.58.
Lo spengo o non lo spengo? Normalmente quando vado a dormire lo spengo, però magari lui è uno di quelli che ama le conversazioni notturne, gli piace mandare messaggi carini alle 3 del mattino. Non posso rischiare di perdermelo. Stanotte si dorme col telefono sul comodino. Acceso.


MERCOLEDI’. ORE 6.47.
La sveglia mi darebbe un bonus di altri 43 minuti e io sono già in piedi. Idiota idiota idiota. Tutto per un telefono muto. E se chiamassi io?


MERCOLEDI’. ORE 11.06.
Lo chiamo. Non lo chiamo. Lo chiamo. Non lo chiamo. Lo chiamo non lo chiamo lo chiamo o non lo chiamo? Magari un messaggio? No, i messaggi sono equivoci, in centosessanta caratteri ci stanno appena il mio nome e cognome, figuriamoci un saluto post orgasmico. O lo chiamo o non lo chiamo.


MERCOLEDI’. ORE 13.35.
La smetti di vivisezionare quel piatto di pasta?

Perché, tu quando aspetti una telefonata che non arriva cosa fai? Yoga?

In effetti sì.

E io affetto maccheroni al ragù in pezzi piccoli piccoli.

Senti, parliamone. Dunque non chiama.

No. È mercoledì. Sono passati, per intero, domenica lunedì martedì e oggi per metà.

Domenica non lo conterei.

E no. Non lo conteresti se ci avessi passato insieme la giornata. Ma dal momento che me ne sono andata al mattino presto la posso contare.

Sì, funziona.

Perché non chiama? Cosa ho sbagliato? Sarà perché gli ho riordinato casa?

Gli hai riordinato casa? Quella notte?

Ma no, la mattina. Non riuscivo a dormire.

E gli hai riordinato casa?

Giusto due cose…

Magari è timido.

No.

Ha una ragazza?

Non credo.

Il telefono rotto?

Mappperpiacere.

È andato tutto bene tra di voi?

Sì, tutto bene.

Ma bene del tipo ho-paura-di-farti-male o bene più tipo prendi-mordi-graffia-fammi-male?

Più la seconda direi.

Non è dunque il tipo che mentre fa sesso ti lascia il tempo di pensare che hai bisogno di un paio di scarpe nuove?

Assolutamente.

Quindi nessun disagio fisico.

Niente di cui abbia potuto accorgermi. Lo chiamo?

Non prima delle dieci di stasera.


MERCOLEDI’. ORE 21.57.
Non so se è la cosa giusta. Cosa diavolo gli dico? Se non ha avuto modo tempo e voglia di chiamare lui si vede che non gli interessa. Non ci vuole niente a chiamare una ragazza.
Forse non ci vuole niente a chiamare una ragazza con cui non hai ancora fatto sesso.
Che disastro. Se ora lo chiamo penserà che sono pazza di lui e non vedo l’ora di lasciare il mio spazzolino nel suo microscopico bagno. Oppure che sono la classica ragazza vinavil incapace di mantenere le giuste distanze. Potrebbe addirittura pensare che sono pronta a buttarmi ai suoi piedi, legarmi alle sue caviglie e stramazzare d’amore.
Che orrore. Non potrebbe pensare che avevo semplicemente voglia di sentirlo e basta?


MERCOLEDI’. ORE 22.04.
Sì, pronto

Ciao, sono Mich

Oh.

(oh??) Ciao

Ciao

(non si può dire che ti sforzi di mostrarti felice di sentirmi) Come va?

Mmmh, normale. Tu?

Mah, bene. Avevo voglia di sentirti

Ah

(potresti anche aiutarmi un po’ accidenti) Allora tutto bene? Cosa hai fatto in questi giorni? (penosa, non ho niente di più brillante da chiedergli?)

Le solite cose

Tipo? (adesso vomito)


Senti, c’è una cosa che devo dirti…

(finalmente) Che serio. Di che si tratta?

Ecco, io…

Cosa?

Io ho pensato tutti i giorni di chiamarti, davvero

(che tenero!) Sì?

Sì. Ma alla fine non ci sono riuscito. Sono molto in imbarazzo.

(molto che?) Che tipo di imbarazzo?

Sai, hai dormito qui, ero molto contento, ma poi…

(avanti, coraggio) Ma?

Non so bene come dirtelo

Hai una ragazza?

No, non è quello. Io…

(dio che fatica) Dai, non sarà così terribile

Dipende dai punti di vista. Tu comunque stai bene?

Bene, sì

Ma bene bene?

(prego?) Ssssì…

Ma proprio bene? Bene dappertutto?

(…??) Di cosa parli esattamente?

No, perché io non sono stato bene in questi giorni

(no no no no, ti prego, no) In che senso?

Ecco, ho una specie di sfogo eritemico

Un eritema?

Simile

(dove dove dove?) E dove?


Il medico ha detto che non sono infettivo, però comunque non sapevo come dirtelo e avevo fatto tutte quelle storie per non usare il preservativo, insomma, mi sentivo un po’ in colpa…

Di che diavolo stai parlando?

Ecco, ho delle bolle…

Delle bolle?

Sì, con delle piccole croste…

Bolle con le croste?!

Guarda, non c’è pericolo, sul serio, è una cosa mia

Tua? Dove? Dove le hai le bolle con le croste?

Davvero, mi spiace. Ma ti assicuro che non c’è pericolo…

DOVE???

Sul pisello

martedì 29 settembre 2009

Precise disposizioni


Allora, accade più o meno questo, che uno inizi a pensare all'eventualità che morte lo colga prima di riuscire a salutare tutti quanti. Anzi, è abbastanza probabile che accada proprio questo, dato che è piuttosto difficile che uno mentre è lì che agonizza si metta a fare un giro di telefonate per avvisare gli amici. Ora, quello che mi turba è che ci sono persone che non lo sapranno mai. Pensate pure che da parte mia si tratti di una forma perversa di narcisismo, può darsi, però questa cosa che certuni non verranno a sapere della mia dipartita non mi va proprio giù. Non parlo di chiunque io abbia conosciuto su questa terra, è ovvio, parlo piuttosto di compagni per certi versi transitori, amori ad interim, amici di passaggio, che però hanno influito in modo decisivo su certe nostre giornate. Definiteli come vi pare, fatto sta che sapete con certezza che non sono abbastanza presenti nel vostro presente da poter incrociare l'epigrafe con il vostro nome. E quindi? Come fate a sopportarlo? Ho dunque immaginato di depositare presso un notaio alcune precise disposizioni, come ad esempio un elenco di persone da contattare in caso di calamità che mi vedano protagonista. Avevo anche pensato di lasciare presso il suddetto l'elenco delle mie 6 caselle di posta e dei miei 7 altri account con relative password (compreso questo) con indicazioni dettagliate su come dare la notizia attraverso la mich virtuale. Ma ho lasciato perdere perché in questo modo ne verrebbero probabilmente informate anche persone che ne sarebbero felici e non mi va tanto. Alla fine dunque ho lasciato perdere le vie legali, ho messo giù qualche nome e, presa da cotanti pensieri, ho scritto a un'amica quanto segue:


senti, sono in paranoia pura: se dovesse capitarmi qualcosa di brutto e/o tragico (intendo qualcosa di semi-definitivo tipo morte, incidente gravissimo, leucemia fulminante o patologia rara) mi prometti che farai in modo, per quanto in tuo potere, che questo elenco di persone lo sappia? conto su di te [segue elenco con recapiti]

venerdì 25 settembre 2009

Pendolante


Sveglia alle 6.
Uscita di casa alle 7.
Rientrata adesso, con quasi due ore di ritardo rispetto al previsto, causa guasto tecnico di aliena natura. Ho attraversato, digiuna, campagne buie e stazioni colme di passeggeri rassegnati e digiuni pure loro, dallo sguardo sempre più feroce. Ora temo la crisi isterica, temo di iniziare a urlare e non smettere più, cerco spigoli cui dare mirate testate. Le mie poche certezze vacillano. Ho bisogno di sushi, ma è tardi per la consegna a domicilio. Tengo a bada l’ansia buttando giù un moment col martini.

PS. grazie Trenitalia

lunedì 21 settembre 2009

Rewind



C'è questo cantante, può essere che qualcuno di voi lo conosca, si chiama Vasco Rossi. Adesso non venitemi a dire che voi non vi bagnate nella folla del signor Rossi, pfui, che non avete mai canticchiato, magari senza rendervene conto, qualche vecchio successo e che lo lasciate alla massa mentre voi ascoltate soltanto retrospettive di musicisti ucraini possibilmente morti nei gulag. Che ci stanno anche le retrospettive dei musicisti morti, ci mancherebbe, ma oggi Vasco Rossi mi serve per un concetto in particolare: quello del Rewind, non necessariamente legato al sesso, come invece compare nella canzone del nostro amico, ma esteso a tutte le possibili varianti. Non mi viene in mente un altro che l'abbia usato con la stessa accezione (senz'altro esiste, e può darsi che non si tratti per forza degli Zero Assoluto, solo che oggi mi martella in testa questa, di canzone), un'accezione molto particolare. Non ha niente a che fare coi rimpianti e coi rimorsi: qui si tratta di fare una manciata di passi indietro per rivivere tutto da capo senza cambiare una virgola. Fare Rewind perché è stato una figata insomma, non per cambiare parole o situazioni o per ripercorrere una vicenda con in mano il bloc notes dei se e dei ma. La ripercorriamo perché ci è piaciuto, perché era perfetto così. Certo, a volte si vorrebbe tornare indietro per rimediare, per cambiarlo quel maledetto attimo, anche solo per prendere quell'incrocio in bici senza fidarsi del principio della precedenza. Ci sono anche questi, di tormenti, quando si desidera far qualche passo a ritroso: torno indietro e rifaccio tutto diverso. Ma altre volte no. Altre volte si vorrebbe il tasto Rewind per rifarlo uguale.

martedì 15 settembre 2009

Chi ben comincia

Arrivo all'incrocio pedalante coi pensieri a fette, 7 del mattino, la strada è deserta. La percorro tutti i giorni alla stessa ora, conosco a memoria la sequenza delle precedenze. Qui è mia. Ma lui, furgone, non se ne cura. Un secondo esatto per capire che forse non mi ha vista, o che se mi ha vista se ne sta fregando, che non sta rallentando. Pochi metri, sempre meno. Chissà cosa pensa quando si rende conto che sono lì. Qualunque cosa pensi, lui è al chiuso di un abitacolo in acciaio, io sono all'aperto, in sella nell'aria del mattino. Vedo la frenata, ma non sarà sufficiente mi dico. Pochi istanti per pensare oddio qui c'è l'asfalto, spero di non farmi troppo male. Dilatazione spaziotemporale. Quando finisce questo maledetto incrocio? Pedalo. È a un metro, urlo, i muscoli contratti in attesa dell'impatto. Ma l'impatto non c'è: io passo, gli si spegne il motore nello sforzo dell'inchiodata. Mi fermo. Non ne vedo nemmeno la faccia e grido “Coglione! Cazzo! Avevo la precedenza!”. Avrei voluto dire qualcosa di più intelligente, magari senza turpiloquio, non urlando. In teoria sarei la tipa da invitarlo a discutere a mente fredda, con calma e ragionevolezza, dell'imprudenza della sua guida. Invece sbraito cinque parole. Riparto. Riparte. Mi accorgo che sto tremando. Piango per due isolati. Poi la giornata comincia.


Potrei fare autocritica. Se fossi andata un po' meno veloce, se ci fosse stata più luce, se non ci fosse stato l'asfalto bagnato. Insomma, forse è colpa mia, forse pedalavo distratta.
Al diavolo l'autocritica! Avevo la precedenza. E so andare in bicicletta. Quel demente si doveva fermare.

lunedì 7 settembre 2009

Punteggiatura emotiva


Ho un problema di comunicazione. Riguarda la punteggiatura, quella usata per creare faccine, sorrisini e stati d'animo in genere. Temo di essere un po' indietro, più come approccio che come capacità esegetica, e di avere qualche seria difficoltà a comprendere pienamente quello che si sta cercando di dirmi. Mi spiego: alcune sono piuttosto facili


:) e :)) = rido, sorrido, uh come sono contenta, bella questa. Per quanto mi riguarda io la intendo anche come un 'grazie' e 'grazie tante', ma è questione di punti di vista

:D e :DD = che ridere! Che matte risate! Mi sto sbellicando!

:( e :(( = povera me, me tapina, me infelice

:[ = questo sta pensando che sto dicendo una scemenza

>:O = questo sta pensando che la scemenza me la farà rimangiare quanto prima

:°( = questo piange? Così? In pubblico?

:* = e questo bacia? O fa una pernacchia?

Ho poi qualche piccolissimo dubbio con:

;) apparentemente è un occhiolino, d'accordo. Ma in che contesti si strizza l'occhio? Si ammicca per fare una battuta, per sottolineare l'ironia e perché sia chiaro 'non prenderla troppo sul serio' immagino. Io comunque, per mesi, a questa cosa della malizia sottintesa al punto e virgola ho sempre abbinato, per associazione mentale, una qualche specie di segreta avance.

Ma i problemi veri arrivano adesso:

=) questo che è?

E questo :/ ?? Pensavo fosse disappunto, poi qualcuno l'ha usato come interrogazione e qualche altro come perplessità. E io non sapevo se rispondere, cosa rispondere o se era il caso di scusarmi.

E poi ci sono quei tre sguardi straordinari:

o_O questo è strabismo puro

*_* questo invece ha assunto sostanze psicotrope

^_^ per non dire di questo, un affronto all'Accademia della Crusca.

E mi sono limitata ai più usati, evitando di inserire nell'elenco la variante con naso/senza naso, le parentesi graffe e i cancelletti.
Avete suggerimenti? Sono naturalmente ammesse e benvolute libere esegesi e reinterpretazioni bizzarre, anche perché io adoro usarli a vanvera.

martedì 1 settembre 2009

Donna triste, maneggiare con cautela


La verità è che quando una donna è triste c’è poco da chiedere. Soprattutto quando i motivi di quella malinconia non sono chiari nemmeno per lei. Il massimo che potete fare è cercare di assecondarla. Assecondarne i capricci normalmente significa concederle una serie di iniziative moleste sulla vostra persona. Far finta che sia colpa vostra insomma. E anche se in tutta coscienza potete dire di non aver fatto niente di sbagliato sappiate che qualcosa la si trova sempre. Quindi vi conviene darle ragione a prescindere e mantenere il vostro atteggiamento limpido e accomodante, in special modo se la malinconia si accompagna all’insofferenza. Ad esempio dovete dimostrare entusiasmo se manifesta il desiderio di abbattere sui vostri alluci una pentola a pressione o un rastrello da giardiniere. Denigrare persone che stimate ma che sapete che lei detesta vi farà guadagnare il suo rispetto e forse riuscirete persino a meritarvi un sorriso. Dovete poi apprezzarne gli sforzi compiuti nel tentativo di cucinare quella pietanza a base di seitan che detestate. Anche permetterle di togliervi i punti neri può essere terapeutico per il suo umore (personalmente è una pratica che aborro, ma conosco donne di ingegno, cultura ed intelletto che invece impazziscono di gioia all’idea di un simile privilegio sulla pelle del partner – specie sulla schiena – ). Chiederle ripetutamente “cos’hai?” è il modo migliore per alimentarne la depressione e, in certi casi, la furia, sappiatelo. Cosa volete che vi risponda? “niente”, dirà. E, a seconda che a prevalere sia la tristezza o l’insofferenza, potreste provocare, con l’incauta domanda, tanto le lacrime quanto una padellata in fronte. Assecondarla, dunque. Il che potrebbe significare anche restare al buio in salotto a fissare la tele spenta per due ore. In tal caso troverà la vostra presenza irritante. Ma la vostra assenza la offenderà a morte.

giovedì 20 agosto 2009

Spiaggia e senilità


Eccomi di ritorno. Dodici giorni di mare e una certezza consolidata: non sono più quella di una volta. Sto parlando dell’avanzare inesorabile del tempo ovviamente, che fa di me un’attempata bisbetica bagnante, simpatica come un giro di valzer su uno scoglio di ricci. Lo dimostrerò con lucide osservazioni, pronta ad ammettere l’inammissibile.
Tanto per cominciare, nonostante la mia prenotazione su Moby Line prevedesse un impavido passaggio ponte notturno, la prima cosa che ho fatto nel salire a bordo è stata cercare una cabina. C’era. E di questo ringrazio il dio protettore dei pigri e degli indolenti, che ha evitato che mi accampassi sul pavimento di un sottoscala, vicino a una famiglia con tre figli sotto i 6 anni e due barboncini. Ma andiamo avanti. Nei primi anni Duemila la mia giornata era più o meno la seguente: dormivo fino alle 11, facevo colazioni ricche di grassi polinsaturi e andavo in spiaggia, dove rimanevo dalle 12 alle 20. Restavo otto ore di fila sotto il sole, spalmata di unguenti a filtro 0, coltivando abbronzature ai limiti della tollerabilità dermatologica. Avevo i capelli felicemente arruffati dalla salsedine e sguazzavo beata sul bagnasciuga, concedendomi pause per pranzare al chiosco più fetido del litorale, con pasti a base di frittelle, monumentali gelati e birre ghiacciate. Alla fine degli anni Duemila la mia permanenza in spiaggia è più o meno la stessa: dalle 12 alle 20. Solo che, qualunque sia l’ora in cui vado a dormire, apro gli occhi senza sveglia al massimo alle 8 e mezza. Approfitto delle ore guadagnate per allestire sportine da pic-nic con pranzi a base di tabulè con verdurine crude, carotine in pinzimonio e tranci di frutta fresca. Bevo solo acqua naturale e dalle 12 alle 19 e un quarto sto sotto l’ombrellone, con cappello di paglia e crema solare a schermo totale. Detestando mortalmente l’effetto corteccia morente che il mare distribuisce equamente sulle chiome femminili ho comprato, per una cifra non divulgabile, una lozione protettiva per capelli. Ora non temo più né iodio né salsedine e in profumeria hanno affisso una targa col mio nome. Sono insofferente alla sabbia e ai minorenni che me ne mandano in faccia palate nello sbattere incautamente asciugamani lerci e infradito di paglia. Auguro silenziosamente un bagno al largo con le meduse ai giocatori di racchettoni, che si fanno vicendevolmente il tifo urlando a tre passi dalle mie orecchie, e spero di vedere presto almeno un piccolo eritema sulla pelle perfetta di quella biondina ventunenne che mi passa davanti sculettando settanta volte al giorno, portandosi in giro una bellezza a dir poco sfacciata. La mia compagna di ombrellone, che appena qualche anno fa vantava invidiabili competenze di gossip vacanziero, sta ora dedicando l’estate ad amene letture: l’ho colta in flagrante con un tomo di Balzac tra le mani, la storia in quattrocento pagine della cugina Bette, una zitella francese acida quasi come noi. E io non sono da meno: un tempo campionessa di cornici concentriche e incroci obbligati, tengo ora tra le mani, per discutibili motivi accademici, una roba illeggibile della scuola di Francoforte, la cui prefazione recita testualmente “questo è un saggio difficile, a tratti persino noioso”. E vogliamo parlare delle conversazioni? Mi sono sorpresa più volte, con la compagna di ombrellone di cui sopra, a parlare di malattie. Malattie, capite? A vent’anni ci si dava consigli su come prevenire quelle veneree, adesso ci si scambia opinioni sulle patologie degenerative.
Anni fa, se ti suonava il cellulare, era il barista dei Bagni Sardine Selvagge per invitarti al falò di Ferragosto o al massimo tua madre, cui potevi comunicare lieta l’avvento di una micosi sulla spalla destra. Adesso se ti suona il telefono è il tuo collega che ti chiede per cortesia se puoi richiamare il dott. Panella che deve parlarti di una cosa urgente. Tua madre continua a chiamare naturalmente, solo che invece di chiedere se ti sei scottata, adesso ti domanda se vedere tutti quei bambini in costumino non ti mette finalmente in moto una sana voglia di maternità.
Una volta, una serata in spiaggia a vedere le stelle, avrebbe avuto un contorno di vestitini scollacciati e bagno nudi sotto la luna. Ora, temendo una congestione o quantomeno una colite, ci presentiamo all’appuntamento con la sabbia notturna coperte di golfini e scialletti, scarpe chiuse, pantaloni lunghi e sorriso intirizzito di chi spera che sia una cosa breve. Anche solo pochi anni fa non avrei mai sentito un uomo dire a una donna sulla spiaggia di notte: “Per favore, scusa, puoi levarmi la testa dalla spalla che mi si blocca l’articolazione?”.

martedì 28 luglio 2009

Afflitti affettivi

Stando alle riviste patinate di cui sono grande frequentatrice, l’uomo del XXI secolo sta subendo una metamorfosi. Si tratta di qualcosa di ben più profondo della semplice abitudine che i nostri uomini stanno prendendo di rubarci la crema idratante o di usare bagno schiuma all’avena colloidale perché hanno la pelle delicata. I maschi vogliono rubarci anche altro: il ruolo ancestrale delle afflitte affettive. Cercherò di descrivervi la vignetta che introduce un articolo letto di recente, dal titolo “Sesso: i veri desideri degli uomini”. Dunque, in questa vignetta ci sono lui e lei, a cena, calici di vino, rose rosse, lui le prende la mano e dice “Voglio vivere con te, sposarti, avere dei bambini”. Risposta di lei: non pervenuta. Ma il fumetto ci mostra quello che la fanciulla sta pensando di fronte a cotante affermazioni, nello specifico “Ma io vorrei solo sesso…”. Ecco, che ne dite? L’articolo elenca poi minuziosamente i bisogni dei nuovi maschi. Alcuni sono encomiabili. Esempio: al primo posto nei desideri sessuali maschili comparirebbe , cito testualmente, “la certezza di farle provare l’orgasmo”. Ottimo. Che lo facciano per altruismo, gratificazione personale, erotismo o che altro mi sembra un nobile intento. Quello che più viene messo in luce, comunque, sarebbe il nuovo bisogno maschile di dare e ricevere affetto, di condividere cervello e tenerezze. Come a dire che le donne di questo millennio hanno perso l’abitudine alla dolcezza e che i poveri maschi, oppressi da tanta crudeltà, sono ora costretti a manifestare in piazza per avere un po’ di attenzioni. Che assurdità. Saremo anche un po’ più ciniche di quanto non sia stata cenerentola, ma sulle dimostrazioni affettive abbiamo ancora molto da insegnare. Comunque, proprio per questo, nell’elenco dei desideri maschili comparirebbe: “fare l’amore in versione vaniglia”, che tradotto significa una robina soft e tradizionale. Niente lingerie overstatement o bondage insomma: lui, lei, un letto, le coccole. Il sessuologo di turno spiega: “il sesso soft è un antidoto contro l’ansia da prestazione”, come se noi donne passassimo il nostro tempo prezioso a compilar grafici di gradimento. Ok, sono pronta ad ammettere che soprannominare un vecchio amante Speedy Gonzalez durante un aperitivo con le amiche non sia stato gentile da parte mia. E infatti un altro dei desideri maschili è proprio quello “che lei sia più discreta sulla privacy”… ecco, mettiamo in chiaro le cose: le donne tra loro parleranno anche di sesso. Ma non solo di quello, suvvia. Parlano anche di altro: di lavoro, della palestra, di scarpe, di malattie degenerative, se capita di politica, di raccolta differenziata, di ceretta, mestruazioni e qualche volta anche di parrucchieri, di letteratura e di astrofisica. Quanto a Speedy Gonzalez vanno a lui e alla sua attuale fidanzata i miei migliori saluti.

lunedì 13 luglio 2009

Le poche certezze

Esistono certezze e certezze, ognuno sviluppa le proprie. Oggi io ne ho almeno tre, il che fa di me una persona particolarmente fortunata. Sono dunque certa che: il moment faccia passare il mal di testa, che Coming Soon Television sia un buon ipnotico per cervelli stanchi e che il sushi abbia una dimostrabile influenza come antidepressivo. Da queste osservazioni chiunque può facilmente dedurre che soffro di emicrania, ho il cervello stanco e sono incline a forme di depressione. È grosso modo esatto, ma queste patologie hanno oggi un rimedio. Il moment è forse l'unico farmaco che assumo senza temere per l'incolumità dei miei organi interni, l'unico insomma a passare il test del bugiardino, una prova da me inventata per mettere in relazione il mio livello di ipocondria con gli effetti collaterali, in certi casi fatali, che di norma accompagnano anche il farmaco all'apparenza più innocuo. Butto quindi giù una compressa bevendo una sorsata dalla bottiglietta d'acqua ormai tiepida che tengo sempre in borsa. Per quanto riguarda il diabolico canale tematico dedicato a Coming Soon, adoro parcheggiarci sopra i quattro neuroni che arrivano incolumi al fondo di queste giornate. È una forma di ipnosi cui mi sottopongo volontariamente, specie in orari che prevedano il ripescaggio a richiesta di trailers vecchissimi di film che ho già visto e che so già come vanno a finire. Zero effetto ansia, zero aspettative, zero sforzo interpretativo. Li fisso senza muovere le palpebre, addivanata con le gambe distese, i piedi sul tavolino di fronte e le scarpe abbandonate in qualche zona dell'ingresso. Oltre alle scarpe ho seminato per la casa due borse, un mazzo di chiavi, uno dei due cellulari che sono costretta a portarmi dietro, in un vortice di reperibilità comandata, tre giornali e due libri, quattro noccioli di pesca e i semini dell'anguria. Già che c'ero mi sono anche liberata di quel vestitino bon ton da educanda che oggi indosso per trasmettere un rassicurante messaggio di affidabilità e competenza. Dal divano mi allungo sul cellulare più vicino e pesco il numero di japs, che tengo in memoria nella rubrica: “Plonto, japs, cosa posso fale pel lei?”. Il solito: consegna di sushi a domicilio.

lunedì 6 luglio 2009

Fantasie ortofrutticole


In principio era un'Idea priva di consistenza. Quasi una categoria ontologica. Era l'Altra, senza né volto né nome. Non esisteva rivalità tra di noi, perché io la sapevo esistere e nient'altro, lei non mi sapeva proprio e mai mi avrebbe saputa. Resistevo persino a quella curiosità morbosa e velenosa che giorno dopo giorno mi spingeva a darle un viso e una voce. Ma non è durata a lungo questa mia personale resistenza, perché – maledetto il 2.0 – bastano un motore di ricerca e un paio di social network per costruire attorno a un'Idea tutto un mondo di suoni, parole, immagini e relazioni. La prima volta che l'ho vista ho pensato che fosse bellissima. Non l'avevo guardata bene ovviamente: mi ero limitata a tatuarmi a fuoco quella fotografia sul nervo ottico e lasciarla lì, a diventare titanica e irraggiungibile. Mi ci volle qualche tempo per capire che sì, era senz'altro carina, ma bellissima è un'altra cosa. Si potrebbe parlare, con una certa generosità, di una bellezza irrilevante. Fu un sollievo scoprirle quei difetti: i denti, il culo basso, i tratti spigolosi, i capelli crespi. Per non parlare di quell'irritante presunzione con cui si presenta nei pubblici forum, quando parla dei suoi argomenti preferiti, vale a dire concimi azotati e humus di lombrico: è una ricercatrice di biologia, il suo sogno è un agriturismo in balcone, con l'insalata equosolidale e i pomodori a basso impatto ambientale. Mi risulta persino che abbia creato un gruppo su Facebook, una cosa tipo Viva la pizza con la scarola, specie se biologica, cui mi sono ovviamente iscritta, sotto falso nome, in cerca di una qualche improbabile forma di interazione. Il dramma dei social network, comunque, è che puoi spiare le relazioni: è sufficiente una qualche falla nelle impostazioni della privacy e sbatti il naso contro i suoi messaggi e le sue effusioni con Lui. Perché ovviamente è Lui l'obiettivo della nostra malattia mentale, mica Lei. E il gioco delle supposizioni attorno alla Sua pubblica bacheca coinvolge metà delle nostre amiche, un sito di astrologia e almeno un terzo del nostro orario d'ufficio. E tutto questo per quattro maledetti pomodori biologici.

mercoledì 1 luglio 2009

Michela took the quiz "Quale donna del mondo dei libri sei" and the result is Lolita

Clicco sempre Ignora quando ricevo proposte di quiz o test idioti su Facebook, anche perché non ho mai avuto la giusta curiosità per Scopri Di Che Colore Avevi I Capelli Nella Tua Vita Precedente né tanto meno per Qual è il Tuo Lavoro Preferito? Il Contatore di Ghiaia. E infatti ho ignorato inizialmente anche questo: Quale Donna del Mondo dei Libri Sei. Poi un'amica mi ha fatto notare che ero l'unica a non averlo ancora fatto e, dal momento che nelle ultime settimane ho cliccato Ignora praticamente per tutte le richieste e le proposte ricevute, specialmente quelle fuori dai Social Network, ho pensato di assecondarla e trovare due minuti per rispondere a quelle sei o sette domande. Il risultato è Lolita. Lolita, capite? La ninfetta dodicenne che seduce il maturo e annoiato professore, assecondandone la crescente ossessione per poi sfuggirgli e andare a farsi una vita altrove. Salvo cercarlo anni dopo per ottenere in regalo dei soldi e tormentarne la memoria fin dentro il carcere. Mi ha fatto ridere, perché nelle ultime settimane la donna letteraria cui mi sentivo più affine era Silvia, quella di Leopardi, già morta al primo verso e custode inconsapevole di verità indicibili sulle sorti dell'umana gente. Avrei potuto concedere al massimo qualche possibilità alla suicida, piccola stupida Emma Bovary. O alla monaca di Monza, più per affinità di clausura che per folli sventure cui rispondere dal buio del convento. Invece Lolita.
Deve essere un segno. Il momento del risveglio. Oggi è il 1° luglio: mese nuovo, vita vecchia, ma con pennellate di novità. Vediamo se riesco a diventare il fuoco dei lombi di qualcuno. O di qualcosa.

martedì 23 giugno 2009

La donna dell'indicativo

Io sono una attenta al modo verbale. È una mia perversione, prendetela per tale. Io, personalmente, sono la donna dell'indicativo: io guardo, io vedo, io faccio e voglio. Non è difficile. Ma ultimamente sto intrattenendo relazioni con gli uomini del condizionale. Sono circondata. Guardate che la differenza esiste. Vi faccio qualche esempio. Mettiamo insieme a confronto un paio di sintagmi.
Cominciamo da questo: vengo da te VS verrei da te. Se usi l'indicativo io sono già lì che sprimaccio i cuscini e preparo due drink, ma se mi usi il condizionale allungo un orecchio e aspetto il seguito “verrei da te, ma s'è fatto tardi / ho un impegno con mia zia / ho la macchina rotta”.
E sentite questo: sali da me? VS mi piacerebbe se tu salissi. Non credo ci sia bisogno di spiegazioni. Se mi chiedi di salire io me la cavo con un sì o con un no, ma se parti con il periodo ipotetico (per quanto tu lo stia usando solo per fare il galantuomo) mi confondi e inizio a chiedermi dove sta il problema: “vorrei che tu salissi, ma purtroppo ho la cucina allagata / ho il cane rabbioso / c'è la mia ragazza in soggiorno”.
È una questione di sfumature, lo so. E non fraintendetemi: io adoro le sfumature. Ma qualche volta, proprio ogni tanto, se ci limitassimo all'indicativo non sarebbe tutto più facile? Certe volte concedo al massimo un imperativo: sali!

venerdì 12 giugno 2009

Senza corrispondenza

Sono patetica, lo so. Come tutti gli amori non corrisposti, anche il mio sta mettendo alla prova il mio povero senno e il mio buon senso. Non c'è niente di diverso da tutti gli amori-non-corrisposti che ho chirurgicamente sezionato tra le calamità sentimentali delle mie amiche: sto facendo per filo e per segno quello che mi pareva assurdo che facessero loro. Preciso identico.
Tanto per cominciare lo cerco sempre io e ho sempre un'ottima scusa per farlo: devo dirgli qualcosa di urgente, devo ricordargli una cosa importante, cinque volte fa mi ha cercata lui quindi adesso ho un ampio bonus di prima telefonata di cui usufruire quanto mi pare. O più semplicemente ho voglia di sentirlo e questa mi sembra una ragione più che sufficiente. Anche se so bene che è la più scema tra le ragioni. Nei rari momenti di lucidità, quelli in cui riesco a dirmi ad alta voce “se non mi cerca è perché non gli va di farlo” traccio confini mentali tra me, lui e quello che mi è concesso o non concesso di immaginare attorno alla sua persona. Riesco persino a dimenticare quanto mi manca per mezza giornata, tre quarti di giornata. Poi la lucidità va a farsi benedire e penso che se non mi sbrigo in fretta a mandargli un messaggino, diciamo pure adesso subito, c'è il rischio che si scordi per sempre di me e allora addio. La fase peggiore che attraverso, comunque, è quella in cui inizio a comporre messaggi del tipo “ma mi pensi? hai voglia di vedermi? posso passare a salutarti?”, però per fortuna riesco a trattenermi e un provvidenziale senso del pudor sentimentale mi mette momentaneamente al riparo dall'umiliazione di una dolcezza a richiesta. E poi si fa strada una delle possibilità: gli sarà passata, ci sarà un'altra, più bella, più intelligente, meno complessa, più brillante di me. Ma non mi piace per niente considerare questa ipotesi, così la metto sotto al tappeto delle corrispondenze e al mio amore senza corrispondenza dedico un altro pensiero. L'ultimo. Ancora un messaggio, giuro che è l'ultimo.

lunedì 8 giugno 2009

Il primo 730 non si scorda mai

Allora, ha capito?

No

Riproviamo. Quanti datori di lavoro ha cambiato nel 2008?

Formalmente tre, anche se...

Tre. Appunto. Quindi quanti CUD mi ha presentato per il 730?

... tre

Lei ha un cumulo di redditi. Capisce?

Sì, ma “cumulo”, date le cifre, mi sembra una parola un po' eccessiva...

Non faccia dell'ironia. Allo Stato interessa solo il fatto che lei ha accumulato dei soldi facendo diversi lavori. Chiaro? Lo Stato non ha senso dell'ironia

A me invece sembra che se la spassi un mondo. Come può parlare di “cumulo” se di fatto il 2008 l'ho passato nel precariato?

Potremmo dire che la flessibilità, in questo caso, viene considerata una sorta di privilegio

Privilegio?

Grosso modo...

Ok. In conclusione?

In conclusione, dal momento che per il 2008 lei ha un cumulo di redditi, la sua aliquota è aumentata e adesso lei si trova ad essere in debito

Debito?

Lei deve allo Stato dei soldi. Cosa fa? Ride?

...

Si contenga

Ok. Ok. Sono in debito...

Esatto

Di quanto?

713 euro

mercoledì 27 maggio 2009

Periferica

Non sarei ciò che sono (ovvero ciò che esce dai post Vanity Fair o dell'Autoreferenzialità) se non fossi cresciuta nelle basse periferie torinesi. Sì, è una dichiarazione: se a qualcuno fosse sfuggito, nasco tamarra. Poi mi sono iscritta al liceo e sono persino finita a studiare lettere all'università, dove mi sono data una rinfrescata, adottato travestimenti multipli e assunto quest'arietta snob che va tanto di moda. Ma vado fiera di aver ballato al Naxos, di aver indossato tutte le magliette optical bianche e nere con le margherite in voga nel 1996 e di iniziare spesso, ancora oggi, la maggior parte delle mie locuzioni mentali con un direttissimo minkia. Ho fatto le medie in una scuola che rappresentava, nei prima anni Novanta, il refugium peccatorum di tutti i pluribocciati della città. Quando io facevo 1^ c'era gente di 17 anni che faceva 2^ e che spacciava all'uscita. In quella scuola san valentino caccia al primino era una cosa seria e il bullismo esisteva davvero, anche se non era ancora venuto nessuno a codificarlo come tale. E parlo di bullismo al femminile, in parte subito, con tanto di pestaggio al ritorno da scuola ad opera di tal Jessica o Samantha o Debborah (come minkia si chiamava?) cui stavo evidentemente sulle palle, ma anche di bullismo inflitto, con tentativi di intimidazione più che altro verbale ai danni di una primina di nome Elena e della sua amica Lucia. Però, con questa faccia qui, ero poco credibile come bulla e la mia vocazione all'illegalità adolescenziale ha incontrato per necessità una precoce repressione. Avrei voluto coltivare diverse forme di delinquenza, ma un naturale istinto di autoconservazione, unito a certi atavici timori per l'autorità, in parte veicolati nei cortili dell'oratorio dal severissimo don Giacomo, buonanima, mi ha trasformata nel tempo in una petulante secchioncella. Sia chiaro che i compiti li passavo sempre, ho distribuito tonnellate di fotocopie di appunti e come tarra coltivavo segrete passioni per il Tony di turno, che sfrecciava nell'isola pedonale con il Ciao truccato e speravo vanamente di conquistare con le equazioni di secondo grado. Insomma, nasco potenzialmente sporca brutta e cattiva e divento la noiosa prima della classe, con buona pace della sociologia. Una sorta di decorso post-operatorio: che ne sarà della biondina della 1^E una volta diventata grande nella pancia della periferia? Che ne sarà non lo so, fatto sta che ho sempre pensato che 'cazzo vuoi?, usato come intercalare, sia un'espressione estremamente liberatoria.

[ho recentemente scoperto che Gabriele Vacis, alla mia periferia - che è anche la sua stessa identica periferia -, ha dedicato un documentario molto premiato che s'intitola Uno scampolo di paradiso e che invito tutti a vedere]


domenica 24 maggio 2009

Pomeriggio notturno

Le due del pomeriggio.
Pomeriggio di prove generali d’estate. Buona la prima: fa talmente caldo che mi si accavallano i pensieri agli umori biliari, con pessime conseguenze sul baricentro, sul sistema immunitario e su quel generico senso di equilibrio di cui spesso sono usa vantarmi.
Hai presente quando ti svegli la notte, non sai riprendere sonno e te ne stai alla scrivania con sguardo fisso sinceramente convinto di avere qualcosa di estremamente intelligente da comunicare al mondo? La notte fa di questi scherzi. Poi ti svegli e l’intelligentissimo pensiero notturno si manifesta quale profonda idiozia, condivisibile al massimo con la manopola della doccia. Ecco: questo primo pomeriggio mi sta facendo grosso modo lo stesso effetto di una notte d’insonnia. Quindi forse è il caso di bere un bicchiere d’acqua fresca e mordermi la lingua prima di riversare su un pubblico taccuino pensieri di cui, una volta sveglia, avrei senz’altro modo di pentirmi.
Uhm.

venerdì 15 maggio 2009

Questo non mi va giù

Propongo l'elenco di alcune aberrazioni pseudo-alimentari, frutto di certe riflessioni di natura conviviale che mi sono trovata a fare di recente.
Allora, non c'è spazio nella mia vita per:


la birra analcoolica

la pasta di riso

il caffè decaffeinato

e la coca senza caffeina

le caramelle Saila extra forti

le pastiglie Leone all'anice

il tè verde (che pur assumo in discrete quantità a scopo terapeutico)

il Kit Kat al tè verde (che, mi dicono, è in commercio dalle parti di Tokio)

le Pringles alla cipolla

e il pangasio, naturalmente

Aggiungo le calze velate tinta carne in donne sotto i 75 anni. Lo so che non si mangiano, ma il concetto di “aberrazione” include anche visioni sgradevoli e disturbanti di quel tipo, per cui al catalogo potremmo anche aggiungere gli uomini in infradito in contesti diversi dalla spiaggia, i capelli da lavare e il pomo d'adamo che superi i tre centimetri di diametro.
Vorrei che ora mi aiutaste ad aggiornare la lista.

martedì 12 maggio 2009

Nel paradiso dei calzini

“Ma tu non gli rammendi i calzini?”.
Come? Quali calzini? A chi? Io coi calzini bucati al massimo ci tolgo la polvere dalle mensole prima di buttarli.
L'autore della domanda, che non è un cavernicolo in libera uscita ma è una donna di questo secolo, spalanca gli occhi stupita e mi dedica un'occhiata di maligna disapprovazione: lui ti lascerà se non gli rammendi i calzini, pare dirmi.
Ora, mettiamo in chiaro una cosa: le attenzioni che è possibile dedicare a un uomo sono milioni di milioni e rammendare calzini è senz'altro la più noiosa per entrambi. Che ne dici ad esempio di levarti quella maglietta scolorita? E lasciare da parte, almeno in pubblico, quell'orrendo mollettone in plastica? Sono sicura che lui ne sarebbe felice, per lo meno quando siete a cena fuori. E piantala di trascinare i piedi mentre cammini, con la schiena curva e i sandali da padre barnabita. Dagli un bacio quando esci di casa e quando torni, non metterlo in imbarazzo davanti ai suoi amici, ricordagli che stai con lui perché l'hai scelto e non perché non hai trovato calzini migliori da rammendare. E certi uomini, ti ricordo, non esigono neanche tanto e si esaltano se hanno accanto una donna che non rompe le scatole quando vanno a giocare a calcetto, la trovano la migliore delle prove d'amore.
Insomma, facciamo due passi insieme fuori dai luoghi comuni? La piantiamo di pensare che una donna che vuole l'esclusiva su un uomo deve fargli da balia, massaia, sarta, donna delle pulizie, madre sua e dei figli suoi? Oltre naturalmente che badante, pornodiva, cuoca, panettiera, cameriera, economa e tassista? È ovvio tra l'altro che se adesso sono qui a disquisire sull'argomento è perché molto probabilmente nemmeno io sono immune al cento per cento da certi ruoli codificati. Maledizione!
E non ne faccio una rivendicazione vetero-femminista, sul serio. Semplicemente voglio guarire dallo stereotipo e costruirmeli eventualmente su misura i miei clichès! L'unica cosa che rivendico è la libertà di buttarlo via un calzino bucato.

mercoledì 6 maggio 2009

Simplicity Seeker

Ho scoperto qual è l'etichetta che fa per me. Non fate quella faccia: tutti abbiamo un'etichetta pinzata addosso, sul risvolto della giacca o in fondo alla tasca di un paio di jeans. Non c'è niente di male a riconoscere la propria. Anzi, si evitano un sacco di malintesi. Comunque, è successo qualche giorno fa, l'ho capito grazie alle indicazioni filosofiche di un caro amico, nonché real marketing addicted, alla fine di una conversazione molto poco fruttuosa a proposito di ultimi ritrovati tecnologici. Io ho alcuni problemi con i dispositivi elettronici che hanno più di quattro tasti e ho imparato a programmare il videoregistratore esattamente quando il vhs è morto a favore del dvd (che, mi dicono, è moribondo pure lui, ma questo io lo scoprirò tra un decennio). Il saggio amico mi ha guardata un attimo e, dall'abisso di blackberry che ci divide, mi ha apostrofata, con una sorta di tollerante comprensione (o di benevola compassione?): “Tu sei una simplicity seeker”. Ci ho pensato a lungo e ho capito che è una definizione a suo modo calzante. Anche riassumibile con uno dei miei motti preferiti: relax and take it easy. Fino ai 17 anni ero titolare in carica di quello che veniva conosciuto come UCAF, l'Ufficio Complicazioni Affari Semplici, poi ho deciso che non avevo né tempo né energie per star dietro agli intralci del destino, ho iniziato a fare yoga, respirare a lungo, realizzare progetti che non prevedessero più di tre passaggi dall'inizio alla fine. Ho imparato a ridurre ogni quotidiano accidente a sintesi per punti, lineari e comprensibili. Insomma, non so (ancora) evitare i problemi, e non sono affatto immune dalle complicanze, però mi adopero con metodo perché l'incontro con tali complicanze non mi devasti lo stomaco e si riduca a uno schema analitico facilmente leggibile.
Se ci riesco? Ovviamente no. Ma una vera seeker, di tanto in tanto, deve rassegnarsi anche alle complicanze. Forse può essere persino divertente, ma questo è un altro discorso.

martedì 28 aprile 2009

Ma quanto durano le cotte estive?

La prima cotta estiva di cui ho memoria è dell'agosto 1992: lui si chiamava Andrea, aveva 14 anni, era di Vigevano e naturalmente era bellissimo. I luoghi in cui si consumò la mia passione, in modo del tutto autonomo (portai avanti la questione in completa solitudine: lui non venne coinvolto in nessun modo), furono le spiagge di Varigotti, provincia di Savona. A settembre ne cercai il numero attraverso il servizio 12, che all'epoca era gratuito ed efficiente, e gli telefonai, ma scoprii di aver chiamato casa di uno dei suoi innumerevoli cugini e alla fine rinunciai. Dopo quella prima volta, le cotte estive furono moltissime altre: ricordo almeno due Ivan, un Luca, un Michele, un certo Davide di Frosinone e un altro della provincia di Trieste. Le caratteristiche determinanti di una cotta estiva erano poche ma riconoscibili: si consumavano di preferenza tra giugno e settembre, con farfalle nella pancia, scompensi ormonali, telefonate lunghissime e il cap di norma appartenente a due regioni diverse. Poi col tempo le cose sono cambiate: la cotta estiva ha iniziato a coinvolgere almeno quattro stagioni e il cap, per una qualche forma di istinto di conservazione, si è avvicinato di molto, fin quasi a coincidere. Anche la durata, col passare dei lustri, ha subito notevoli cambiamenti e, superata l'adolescenza (per lo meno quella anagrafica), può oscillare in maniera complicata fra i 3 mesi e i 40 anni. Qualche tempo fa un'amica a me carissima ha rispettato a tal punto la regola originaria del cap da scegliere un tizio che ne aveva uno di un altro stato. È rimasta comunque nell'Unione Europea e hanno convissuto per anni. Le cose si sono complicate di parecchio insomma, anche se all'inizio sembrano tutte cotte estive. E voi? Che mi dite? Quanto durano le vostre cotte estive?

L'archivio

Ho archiviato tutto e tutti. E' ufficiale. Tutti i possibili nuovi spunti per la mia vita sentimental-sessuale sono stati riposti in ordinati cassetti. Sì, archiviati. Ho creato persino alcune nuove voci nel mio archivio, tanto per ricordarmi com’è che ci sono finiti dentro in quell’ordine, tutti quei disastri.

L’amico facciamo del sesso anzi no: lì ci ho messo Filippo. Quello sì che è un mistero. Un maschio che si tira indietro un minuto dopo essersi infilato nel mio letto merita uno studio specifico e non ho voglia di occuparmene io. E no, non mi interessa affatto che non volesse complicare la nostra amicizia, per cortesia. Alla nostra amicizia ci pensi, se proprio ci vuoi investire un pensiero, prima di levarti le mutande o, al limite, il mattino dopo, mentre ti preparo la colazione.

L’uomo delle altre: no no, basta, sono troppo vecchia per queste cose. Non lo voglio sospirare un uomo, non mi interessano le sue amiche d’infanzia né le sue compagne delle medie. Non voglio sapere niente dei suoi rapporti irrisolti. Quanto al tema ex fidanzate e affini mi ritengo piuttosto illuminata: vedile, sentile, frequentale e fatevi i regali di natale, ma non invitarla da me per un aperitivo. Per quanto riguarda fidanzate in carica, invece, ci terrei a non doverne sospettare l’esistenza. A questo punto voglio l’esclusiva. In questa parte dell’archivio ci sono finiti Gianluca e Francesco. Anche se per Francesco ero un po’ indecisa sulla sezione Ho bisogno anche di te, baby, per coltivare il mio ego.

L’eterno ritorno: giuro che questa volta è finita, sul serio, non c’è più niente tra di noi, l’ho cancellato. Non l’ho nemmeno chiamato per dirgli "Questa è l'ultima volta che ti chiamo". Anche se credo di farlo uno dei prossimi giorni.

L’uomo della mia vita: questa parte dell’archivio l’ho creata apposta per lui. Sta per andare a vivere con una ragazza che conosce più o meno da venti minuti. Certo che l’ho presa bene.

martedì 21 aprile 2009

Il tè verde è un castigo del cielo

Ho partecipato alla mia settecentomillesima inaugurazione. Rispetto alle prime, alle quali ero ammessa come sguattera della TCC, la Torino Che Conta, ho adesso il ruolo di educata comparsa (il cambio di classe socio-inaugurale è evidente solo ai più spregiudicati intenditori) e ho imparato l'arte fondamentale dell'approssimazione al buffet: niente più goffa voracità, bensì piluccamento quasi casuale di tartine e salatini, con equilibrismi perfetti di bicchieri di prosecco. La quantità di stuzzichini a base di burro ed esaltatori di sapidità che riesco a ingurgitare è direttamente proporzionale all'orario, con punte massime intorno alle 19.30, e all'umore. La combinazione ritorno-dal-lavoro + calo-di-serotonina è la peggiore, perché include anche la voglia spasmodica di procurarsi un allegro scioglimento di tensioni quotidiane attraverso l'alcool. Il risultato è che ritorno a casa col mal di testa e una penosa sensazione di soffocamento, con chiusura semi-definitiva del velo pendulo. Il senso di colpa tipicamente femminile che accompagna abbuffate di buffet produce l'insana smania di bersi almeno 1 litro e mezzo di tè verde seduta stante. Cosa che puntualmente faccio prima di andare a letto. Che il tè verde sia una prelibatezza della cultura orientale è un'invenzione del nostro meridiano. Il tè verde fa schifo, sa di paglia stantia e il suo odore è pressoché nauseante. Lo prendo come una medicina, buttandone giù larghe golate per espiazione, pensando ai suoi benefici effetti su ritenzione idrica e radicali liberi.

mercoledì 15 aprile 2009

Per buona creanza

La buona creanza impone di presentarsi quando si entra in una stanza nuova, quindi, anche se qualcuno di voi mi conosce già, faccio un piccolo ripasso delle nozioni basilari per interagire con me.

Per la categoria Tratti Somatici ho da dire poco: occhio azzurro, capello biondo. Abbastanza alta da poter entrare in competizione con gli uomini che incrocio, abbastanza larga da superare i mitologici 90 della triade 90-60-90 (ma parlo solo dei fianchi).

Il mio piatto preferito è la scarpetta, possibilmente con pane toscano, non salato. Mangio volentieri anche sushi, torta caprese, meringate e verdura cruda in pinzimonio. Quanto alle bevande sono una fanatica dell'acqua di rubinetto, ho imparato da poco a bere quella frizzante e non sono molto affidabile con gli alcoolici, nel senso che basta poco perché io inizi a biascicare, ridere a sproposito e rivelare segreti compromettenti. L'alcool, comunque, anche se in infime quantità, resta sempre un ottimo alibi.

Sono in generale accomodante e riflessiva e litigo molto molto di rado. Se non altro perché sono quasi del tutto convinta che non ci sia praticamente niente per cui valga la pena prendersela sul serio.
So però essere particolarmente acida e nelle fotografie scattate a tradimento ho spesso un'espressione di accondiscendente tolleranza, che il più delle volte si manifesta con occhio al cielo e smorfia del labbro superiore. Tanto da indurre qualcuno a dire “Certo che hai sempre quest'aria schifata”. Me ne scuso: se l'espressione è tale non dipende comunque da voi.

Sono curiosa, petulante e indisponente. Da qualche parte mi è piaciuto definirmi words hunter: sono avida di parole, le vostre soprattutto. Ho una sconfinata bibliografia di citazioni che vi appartengono e di cui mi approprio, in genere chiedendo il vostro consenso, ma non sempre.

Sono apparentemente in salute, anche se in realtà penso di essere covo ideale di mali psicosomatici di varia natura. Non credo di aver mai contratto malattie a trasmissione sessuale, se si esclude il cinismo. Credo praticamente a tutto e, nonostante una laurea in lettere, ho una predilezione molto ben documentata per la matematica e le scienze esatte.


Domande?